venerdì 15 luglio 2016

Castelvecchio-gate: un caso diplomatico

Sono passati più di tre mesi da quando, su un’isoletta ucraina al confine con la Moldavia, sono state ritrovate avvolte in teli di plastica le 17 tele rubate dal museo di Castelvecchio la sera del 19 novembre 2015.

La loro restituzione pareva essere solo una questione di tempi burocratici. Ma, a mano a mano che passano le settimane e i quadri non si muovono da Kiev, prende forma quello che somiglia, sempre più, a un caso diplomatico.

L’ultima rassicurazione è arrivata in settimana dal sindaco Tosi: “I quadri torneranno a Verona entro il mese di luglio”. Ma nessuno è in grado di sapere se il governo ucraino intende rispettare l’impegno preso. Si è mosso persino il presidente del consiglio Matteo Renzi, che nell’ultimo vertice Nato ha accennato alla questione con il presidente Petro Poroshenko, che avrebbe  dato ampie rassicurazioni in materia.




Il problema è che Poroshenko  non pare avere alcuna fretta di restituire i quadri, al momento in ostaggio – per così dire – al museo Kanenko della capitale Ucraina. E sì che non sono certo mancati i tentativi di ammorbidirlo. Tosi si è perfino recato a Kiev con in tasca una cittadinanza onoraria in virtù dei presunti grandi meriti di Poroshenko nel ritrovamento, anche se in verità l’operazione è stata resa possibile da una task force internazionale di cui la polizia di frontiera ucraina è stato solo l’ultimo terminale.


Ora il presidente ucraino pretende, come via libera per restituire i quadri, una cerimonia in cui sia presente anche il suo pari grado Renzi. Siamo insomma nelle mani di un controverso e spregiudicato leader politico, già protagonista della guerra con la Russia di Putin, desideroso adesso di capitalizzare, in termini di immagine e di prestigio, quanto più possibile da questa vicenda. Una vicenda che, nonostante il ritrovamento dei quadri e l’arresto della banda italo-moldava responsabile del colpo, non può ancora considerarsi chiusa. 

(dalla rubrica Il fatto della Settimana su Radio Adige)

mercoledì 13 luglio 2016

Quando il Banco Popolare rischiò il tracollo, visto dall'interno

Non molti anni fa, le azioni del Banco Popolare avevano superato i 20 euro. Oggi siamo appena sopra i due. Poiché a Vicenza si è passati da azioni (non quotate) da 62,5 euro a 10 centesimi, si può pure dire che qui a Verona è andata perfino bene. Ma era inevitabile che finisse così? Era inevitabile che tanti risparmiatori per cui la Popolare era sicura come una cassaforte finissero coi propri risparmi decimati, e non solo per il calo del prezzo delle azioni? E ancora, allargando un po’ il campo:  da dove nascono i tanti scandali bancari di questo Paese? E perché le nostre banche sono così deboli che, al primo battito d’ali di farfalla da qualche parte nel mondo, vengono travolte?


Sono tutti temi che leggendo  “Sabbie Mobili”, il libro di Fabio Innocenzi che del Banco è stato amministratore delegato fino al 2008, trovano parziali risposte. Un libro prezioso non tanto per i motivi che l’hanno ispirato - è evidente come Innocenzi punti anche a riabilitare il suo nome dalle vicende controverse che l’hanno visto protagonista, su tutti il caso Italease - quanto per lo squarcio che apre su un mondo di cui è molto complicato conoscere i dietro le quinte.  



Innocenzi è un banchiere dalla carriera precoce e prodigiosa. Arriva (anzi, torna, visto che è veronese) a Verona nel 2003 da Boston, dove dirige una società di investimenti per conto di Unicredit. Il presidente del Banco, allora come oggi, è l’avvocato Carlo Fratta Pasini, che cerca un manager capace di “sfruttare le opportunità del mercato” per una popolare che, fino ad allora, si è limitata a raccogliere depositi e prestar soldi. Insomma a fare la “banca del territorio”.


La prima grande opportunità è l’acquisizione di una nobile decaduta, la Banca di Novara. Un’operazione festeggiata dal mercato che però si porta in pancia un seme avvelenato: Italease, di cui Verona diventa prima azionista. Innocenzi mette a dirigere la società di leasing tal Roberto Faenza, un manager “ereditato” da Novara che lui stesso aveva precedentemente accantonato, e con ottime ragioni.


Per farla breve: con Faenza, Italease cresce a dismisura fino a venir quotata in Borsa, ma questa crescita è pompata da derivati speculativi. La truffa viene scoperta e Faenza, che coltiva amicizie pericolose coi “furbetti del quartierino”, arrestato. Innocenzi finisce indagato per aggiotaggio (e buona parte del libro è sul processo kafkiano che ne segue e che si concluderà, molti anni dopo, con un’assoluzione piena) ma, quando fallisce un’operazione di messa in sicurezza di Italease, il Banco rischia di venir travolto. A quel punto Innocenzi, per “placare i mercati”, si dimette. Al suo posto, arriva il rassicurante Pierfrancesco Saviotti, l’uomo che oggi sta conducendo in porto l’operazione di fusione con la Banca Popolare di Milano per dar vita al terzo gruppo italiano.


Una prima facile risposta ai guai del Banco potrebbe quindi essere: è colpa di Innocenzi. Lui ha messo Faenza in Italease, lui non si è accordo di quel che stava succedendo se non troppo tardi. C’è una parte di verità in tutto questo, ma solo una parte. Se fosse tutta e solo colpa di Innocenzi, non si spiegherebbe perché la sua carriera sia continuata brillantemente dopo il Banco: prima a capo della divisione Nordest di Intesa-San Paolo, poi a dirigere la filiale italiana del colosso svizzero Ubs.


Leggendo i suoi resoconti, Innocenzi appare come un pesce rosso in una vasca di squali. Se alla fine verrà ingoiato da Italease, è pur vero che era già stato azzannato da Fiorani (l’acquisizione della Popolare di Lodi si rivelerà “sanguinosa” per il Banco) e aveva scampato per un pelo il morso degli immobiliaristi romani (solo all’ultimo secondo il Banco si ritira da un’operazione che sarebbe stata probabilmente disastrosa: l’acquisizione della Banca Nazionale del Lavoro).


Il mondo delle banche italiane, come emerge dal libro, ha poco a che fare con l’economia, e moltissimo con la (bassa) politica: la tutela di interessi, posizioni, rendite. Quando due banche si fondono, pare che il problema principale sia la governance: quanti consiglieri espressi da chi (e per questo i cda sono così elefantiaci), come spartirsi i manager. Insomma, come andare avanti come prima, nel momento in cui tutto cambia. Se in questa atmosfera già tossica si inserisce il governatore della Banca d’Italia (Fazio) che, invece di fare l’arbitro imparziale, mette insieme un plotone di pretoriani dal dubbio pedigree nell’anacronistica difesa dell’”italianità”, la frittata è presto cucinata. Sarà in questo clima che matura la folle acquisizione per nove miliardi cash di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi, e che oggi rischiamo di pagare tutti.


Nel libro di Innocenzi, la politica del governo  resta sullo sfondo, un distante rumore di fondo. Di certo, visto dagli occhi di un banchiere che governa miliardi, è molto chiaro il perché il Paese faccia una tale fatica a attrarre investimenti: poca trasparenza anche (e soprattutto) dagli organismi di controllo, cinica furbizia elevata a metodo di sopravvivenza se non di prevaricazione, una giustizia bizantina, l’abitudine di nascondere la polvere sotto il tappeto rimandando impopolari ma necessarie decisioni. Così oggi le nostre banche sono fragili perché, quando potevano essere aiutate (per esempio ricapitalizzandole con soldi pubblici), abbiamo finto che non stessero poi così male. E oggi rischiano di finire nel baratro, e noi con loro.

Poi, anche quando il Titanic inizia a imbarcare l’acqua dopo la collissione con l’iceberg ci sono sempre quelli che continuano a ballare sul ponte. I banchieri, nel libro di Innocenzi, non ne escono bene. Spesso la loro principale preoccupazione è quanti soldi prendono (spesso si tratta di milioni), come possono prenderne di più, quanto possono incassare vendendo le stock option e un altro variopinto campionario di piccole preoccupazioni terrene. Nel sottotitolo del libro Innocenzi si chiede: “Esiste un banchiere perbene?”. La sua risposta sarebbe scontata: “Si, esiste e sono io”. Non so se mi spingerei a tanto, ma anche fosse vero, sarebbe l’eccezione che conferma la regola.