mercoledì 13 aprile 2016

Il Vinitaly è un "evento locale"

Chissà se il Vinitaly numero 50 sarà l'ennesima edizione "record". Di certo, la rassegna principe della fiera di Verona ha iniziato, quest'anno, un percorso di cambiamento di cui è chiaro l'intento, un po' meno chiaro l'approdo.

Per dirla in poche parole: da quest'anno in fiera si fa business, mentre si sbevazza fuori dalla fiera, nei tanti eventi in città del "fuori salone" chiamato Vinitaly and The City. In fiera quest'anno ci sono stato poco, ma ho parlato con un po' di operatori che confermano un cambiamento del pubblico,  con meno bevitori occasionali, più ordine, più servizi. Ma attenzione: si tratta di un lieve miglioramento rispetto agli anni scorsi. All'interno dei padiglioni ci sono ancora tantissimi turisti del vino, nonostante il taglio degli omaggi e l'aumento del biglietto a 80 euro.

In fondo, però, il punto è un altro: cosa vuole diventare Vinitaly? A cena ho incontrato un giornalista specializzato di una nota rivista enologica anglosassone, che mi ha offerto il suo punto di vista. Vinitaly, per lui, è un evento "locale". Si, locale. Con buona pace degli sforzi di internazionalizzazione, i numeri (apparentemente) in crescita degli operatori esteri. Questo perché - per quanto ci venga gente come Jack Ma di Ali Baba - resta una fiera del vino italiano. Anzi, più che una fiera, una festa. "Io adoro venire a Vinitaly", mi ha detto il collega. Ma quasi come fosse una vacanza.

Vinitaly, più che l'appuntamento dove il vino italiano viene venduto agli operatori globali, è in qualche modo la rappresentazione che il vino italiano vuole dare di se stesso. Quello di un prodotto di qualità, che proviene da una terra ricca di tradizioni e di saperi, componente irrinunciabile di un certo stile di vita. Vengo a Vinitaly per respirare questa atmosfera di grande evento, per andare alle cene in villa allestite dalle grandi cantine, per portare i miei clienti alla Bottega del Vino (dove in questi giorni non si riusciva a entrare nemmeno se avevi prenotato).

Questo, mi diceva l'esperto collega, è il meglio che l'Italia ha da offrire oggi. E, anche per questo, si capisce quanto fuorviante pensare di risolvere i problemi di Vinitaly spostandolo a Milano. Anche lì, infatti, resterebbe - per dirla con le parole del collega - un evento "locale", magari con qualche parcheggio in più,  senza però tutto il contesto che Verona, in cinquant'anni, ha saputo cucirgli addosso.

Il problema è che le cantina fanno sempre più fatica a sobbarcarsi i costi di quella che, in fondo, è una grande occasione di rappresentanza, di immagine, più che di affari. Per questo, molte cantine nostrane  vanno sempre più  al Prowein di Dusseldorf dove, però, non tutto è oro quello che luccica: gli espositori alla fiera tedesca sono ormai troppi e c'è chi, nei giorni di fiera, non colleziona nemmeno una visita. Senza contare che anche VinExpo, la grande fiera del vino francese, vive una fase di declino.

La soluzione qual è quindi? In astratto, quella suggerita dalla Fiera di Verona pare corretta: trasformare Vinitaly da una semplice fiera a una piattaforma di servizi e promozione tutto l'anno per favorire l'internazionalizzazione delle imprese vinicole italiane all'estero. Ma mi chiedo, senza malizia (e l'ho chiesto anche al presidente di VeronaFiere, che ho intervistato): Vinitaly - e con lui la fiera - ha le spalle larghe per sobbarcarsi un simile compito? Ha le risorse, non solo e non tanto economiche, ma manageriali, per diventare un player globale? Ho affrontato l'argomento anche con il mio collega commensale, e la sua risposta è stata in qualche modo tranchant: "No. Qui c'è troppa politica".