giovedì 23 gennaio 2014

Un angolo di New York a Verona

Si dibatteva qualche tempo fa sul fatto se Verona sia morta o meno.
Credo che il minimo che si possa dire è che non sia vivissima. Perché non c'è nulla che sprigioni vitalità come la musica suonata dal vivo, e il centro ormai da questo punto è afono.
Una volta non era così. Si suonava nei pub (come l'Invidia a Veronetta), si suonava nei bar (rimango affezionato alle jam session domenicali alla Kappa), si suonava nei locali (perché sì, c'erano i locali: come il Posto in Borgo Venezia). Ogni band poi, com' è noto, si porta dietro il suo piccolo seguito, che compra qualche birra e fa girare l'economia.
Purtroppo, da qualche anno  questa parte, il complessino nel bar - almeno in centro a Verona - è diventato il tabù dei tabù, in ossequio al nuovo mantra che "i residenti hanno diritto di dormire" (giustissimo, ma basterebbe fare rispettare le regole; poi se uno vuole il silenzio assoluto c'è sempre la campagna).  Ci è stato tolto quel poco che c'era - e penso a quell'esperienza unica che era il Carega Jazz Festival - svuotando la città di voci e di note.
Per fortuna c'è qualche ultimo giapponese che non si arrende, come Manu - per lui garantisce pure uno del calibro di Ben Harper -  del Cafè Oberdan, dove cascasse il mondo si suona ogni venerdì e sabato.
(Dal Corriere di Verona di oggi, giovedì 23 gennaio 2014)

Ci vogliono più Oberdan Cafè in questa città, perché la noia, l'apatia, la rassegnazione che fa dire a autorevoli commentatori che Verona è città morta, si combatte anche così. So che non è facile - economicamente parlando - al giorno d'oggi, con tutta la inutile burocrazia che c'è, la Siae, i regolamenti anti-rumore e via dicendo, tenere in piedi un locale dove si suona musica dal vivo. E' un investimento molto più redditizio metter su Sky e far vedere le partite. Oppure piazzare qualche slot, dove i pensionati possono svenarsi. Proprio per questo bisognerebbe sostenere i gestori come Manu dell'Oberdan, quelli della Carega, insomma tutti quelli che in questa città provano a portare un angolo di New York, una spruzzata di Londra, un tocco di Barcellona. Onore a loro.
Rock on! 

martedì 14 gennaio 2014

Niente più Quercia. E siamo tutti un po' più soli

Niente più tagliatelle col sugo di lepre.
Niente più bollito con le patate arrosto.
Niente più buffet (si fa per dire) delle insalate.
Niente più vino rosso o bianco, ti porto la bottiglia paghi solo quello che bevi.
Niente più pere cotte per dessert.
Niente più grana a volontà a fine pasto.
Niente più caffè con bottiglia di grappa.
Niente più conto da dieci euro a testa.
Niente più di magro in Quaresima.
Niente più venerdì pesce (prevalentemente seppie coi piselli).
Niente più gulasch a luglio (che poi era il solito bollito, con un po' di paprika).
Niente più è tutto pieno ma se mi porti una pentola te la riempio e mangi a casa.
Niente più è l'una e mezza e la cucina è già chiusa.



Niente più Quercia. E' ormai ufficiale: il ristorante di via Tonale chiude i battenti, per sopraggiunti limiti d'età. Era aperto da 40 anni e, da allora, non avevano mai cambiato nemmeno una sedia. Forse riaprirà con una nuova gestione. Nulla sarà più come prima.
La notizia, tra conferme e mezze smentite, circolava da un po'. Qualche settimana fa avevo incrociato il figlio del titolare: "Non chiudiamo, le solite esagerazioni. Cambiamo solo il cuoco". Non era vero. La crisi stavolta non c'entra. "Si, è chiuso - mi ha detto il titolare, il signor Luciano, archetipo dell'oste - Andiamo in pensione, semo veci".
La trattoria no, non era vecchia. O meglio sì, lo era. Ma per uno di quei  strani cicli della storia, era tornata "moderna", ultimo rifugio di una veronesità ormai perduta. Non era più solo il ristorante dei "bondolari", come sono stati (poco) affettuosamente definiti gli abitanti di Borgo Trento. Né quello dove i politici (rigorosamente democristiani) si davano appuntamento per stringere patti più o meno leciti. Ci andavano adesso anche i giovani professionisti in pausa pranzo. I gruppi di amici per festeggiare un compleanno.  Le famiglie, prevalentemente sabato e domenica (obbligatorio prenotare) come alternativa alla pizzeria.
Alla Quercia non si andava solo a mangiare. Ci si andava per sentirsi come e più che a casa. Il menù non riservava mai grandi variazioni e questo era un conforto aggiuntivo: come andare a pranzo dalla nonna. Tutto era come una volta: il pavimento in marmettone, le pareti tinta giallina, i tavoli di legno, le tovaglie bianche di stoffa. Tutto questo produceva l'alchimia che ti portava, una volta conosciuto il locale, a tornarci, a volergli bene.
Spero che chiunque arrivi adesso tenga conto di questa pesante eredità, con i ricordi e le aspettative di chi ha frequentato la Quercia per decenni e di chi (come me) l'ha conosciuta in tempi, troppo recenti. Un po' come quando se ne va improvvisamente una vecchia zia: ti dispiace non averla frequentata di più, averla vista un'ultima volta, averle chiesto di ripetere, ancora una volta, quei vecchi proverbi che solo lei conosceva. Adesso ci passi davanti, vedi solo le serrande abbassate, ripensi malinconicamente al chiacchiericcio degli avventori le sere d'estate, in quel plateatico improvvisato sotto i faggi. Già perché poi, di querce in via Tonale, nemmeno l'ombra.