mercoledì 27 marzo 2013

Sir Paul in un'Arena profanata

Caro Paul. No, aspetta: gentile signor McCartney. Uhm, facciamo: egregio baronetto.
Va beh, ci siamo capiti.
Qui a Verona siamo tutti very excited dopo aver saputo che verrai a suonare all'Arena, il prossimo 25 giugno. I prezzi dei biglietti, te lo devo dire, sono un po' eccessivi, ma per te faremo uno sforzo. D'altra parte, la tua stessa presenza è un evento: ho avuto la fortuna di vederti l'anno scorso a Londra, quando sei salito a sorpresa sul palco con Bruce Springsteen. Cantavate Twist&Shout, la tua voce non è più quella di un tempo, ma chi se ne frega: noi tutti in visibilio, a ballare nel fango di Hyde Park, fino a che vi hanno tolto la corrente, come nel '69 al concerto sul tetto della Apple. Mitico!
Ma ora, caro sir Paul, veniamo al punto. Sono certo che, se hai scelto Verona come unica data italiana - per giunta nell'anno del cinquantesimo anniversario della formazione dei Beatles - lo hai fatto per l'Arena. Un contesto suggestivo, magico, e via aggettivando. Magari ci farai pure un Dvd e andrà a ruba. Ti voglio però avvertire: temo che il tuo concerto non sarà l'evento dell'anno.
Come dici? No, non sei insediato dal programma per il centenario della prima Aida in Arena, per altro a duecento anni dalla nascita di Giuseppe Verdi ( fossi io nella fondazione lirica, avrei chiesto a tutti gli artisti che si esibiranno in Arena quest'anno un omaggio alla ricorrenza: non sarebbe male vederti cantare Va' Pensiero, potresti riesumare qualche vecchio arrangiamento di Phil Spector). Ho paura che la città si accorgerà appena di questo importante anniversario e sarebbe un peccato perché niente come la vecchia opera si adatta a far vivere, davvero, questo teatro di quasi duemila anni d'età (e tutto l'indotto di alberghi e ristoranti).
Caro Paul, non voglio essere troppo snob, ma mi piange un po' il cuore a pensare che l'Arena, in quest'anno così importante e ricco di ricorrenze, sarà ricordata soprattutto per questi ragazzini qua.


Che pena. Ma il vero tuffo al cuore sarà vedere l'ondata di giovanissime fan che si strapperanno i capelli, che si accamperanno in piazza Bra, che ricorreranno a ogni sotterfugio pur di avere il biglietto che non sono riuscite a comprare (l'unica consolazione è che non hanno ancora l'età per votare). Si sta scatenando una specie di follia collettiva, amplificata dai social network, e spero che almeno quel giorno (il 19 maggio) il tempo sia molto, molto inclemente.

La Beatlesmania era un'altra cosa: c'erano i Beatles. Per voi si, era lecito fare qualunque cosa. Eravate il simbolo di un'epoca nuova, di una generazione che ribolliva e reclamava il suo posto al sole. Suonavate una musica mai sentita prima, eravate allo stesso tempo pop e avanguardia. Questi qui sono diversi: sono un prodotto commerciale, costruito a tavolino, pompato da milioni di dollari di pubblicità più o meno diretta. Non dovrebbero salire sullo stesso palco che calcherai anche tu, è ingiusto, è sbagliato. I luoghi hanno un cuore e un'anima, a maggior ragione quelli che ospitano la musica: questi qui non li farebbero mai suonare al Madison Square Garden (come dici Paul? Hanno suonato anche li??? Cristo santo).
Che ti devo dire, caro Paul, io spero che la tua presenza potrà redimere questa ennesima profanazione dell'Arena. Ma la verità è che ho perso ormai la speranza. Per i classici 30 denari ci troviamo (costretti?) a dover nobilitare, con il nostro retaggio di storia millenaria, l'ultima trovata disperata di un'industria discografica senza ormai nulla più da dire, se non riesumare l'ennesima boy-band di minorenni efebici.
Non posso non ricordare che mentre loro cantano quant'è bello essere gggiovani, tu a 15 anni avevi già scritto "When I'm 64": una canzone che parla di futuro.
Quel futuro che noi, oppressi dal passato e schiacciati dal presente, non sappiamo più nemmeno immaginare.



lunedì 25 marzo 2013

Dove va Tosi (e perché Zaia va dall'altra parte)

Ha detto bene Pietrangelo Buttafuoco, venuto sabato a Verona per "sponsorizzare" la discesa in campo di Flavio Tosi come futuro leader del centrodestra: "L'Italia è come fosse nel dopoguerra. Che è peggio della guerra". Siamo circondati di macerie: non visibili, come nel '45, ma non per questo meno reali. Dopo cinque anni di crisi, l'Italia è stremata. Isole felici non ne esistono più, nemmeno al Nord, nemmeno in Veneto: le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta. Chi ha ancora un lavoro si chiede quanto durerà: siamo diventati tutti precari. L'orizzonte si è accorciato: si pensa a sopravvivere oggi, più che a progettare il domani.  E' il dopoguerra, baby. Nel frattempo l'Italia è spaccata in tre blocchi, apparentemente inconciliabili tra loro: a Roma è lo stallo più completo, mentre il mondo va veloce e ci condanna ad essere periferia della periferia.
Questo lo sanno tutti, ma solo in pochi stanno pensando al nuovo ordine che emergerà da queste macerie. Tosi è uno di questi: che ci prenda o meno lo vedremo, di certo lui guarda a un futuro che adesso ancora non c'è. Un futuro in cui Renzi prenderà la guida del centrosinistra (o di quel che ne resta) e il centrodestra si troverà a dovergli contrapporre una figura adeguata, autorevole, possibilmente della stessa generazione: Tosi sta lavorando per essere quella persona. Un percorso in salita, quello del sindaco di Verona, per tante ragioni (ne avevo elencate alcune qui), ma tutt'altro che una scommessa al buio. Il progetto della "nuova Lega" sul modello Csu bavarese serve proprio a questo: a fornire a Tosi quella base partitica di consenso che, da solo con la Lega, non avrà mai. E la macroregione, anzi le macroregioni, sono la nuova risposta "dal basso" al federalismo che il Carroccio, nonostante le promesse, non è mai riuscito a conquistare a Roma.
In questo disegno, che postula una sostanziale dissoluzione del Pdl una volta "pensionato" Berlusconi,  la Lega (che - ricordiamolo - è il partito di Tosi) è destinata ad avere un ruolo subordinato, come dimostrano per altro i rapporti di forza del "modello Verona", dove la lista trasversale di Tosi ha tre volte i voti del Carroccio.  I leghisti lo hanno capito benissimo: e se i "tosiani" si fidano dell'intuito del loro capo, tutti gli altri invece lo temono. Anche chi, come Luca Zaia, si era sempre tenuto distante dalle "beghe di partito", ha cambiato atteggiamento. Dopo le elezioni ha usato parole di inusitata violenza (per lui) per attaccare Tosi, accusandolo del pessimo risultato del Carroccio in Veneto. E oggi è tornato a sparare palle incatenate, contro la decisione di commissariare la Lega di Venezia. Non è in scena una seconda puntata della guerra tra  "bossiani" e "barbari sognanti": detto molto brutalmente, è il primo atto di chi crede ancora che la vecchia Lega abbia un futuro e di chi (Tosi e Maroni) pensa di no. Due visioni del mondo opposte e non conciliabili, di quel che sarà una volta sgomberate le macerie.

martedì 19 marzo 2013

Che ci frega dell'aeroporto di Brescia?

Non fossi un addetto ai lavori, penso che la mia reazione alla notizia della firma della concessione quarantennale per l'aeroporto bresciano di Montichiari al veronese Catullo sarebbe stata su per giù un'alzata di spalle. E allora? Cosa cambia nella mia vita? Insomma: chi se frega.
Avrei sbagliato. Un po' come chi dice: "Lo spread? Un'invenzione!". E poi però dimentica che l'Italia è Paese che (soprav)vive solo grazie al debito e che più lo spread è alto più è costoso farsi prestare i soldi che servono per pagare gli stipendi di medici e insegnanti, sostenere gli anziani in casa di riposo, tappare le buche delle strade.
Riassunta in poche parole la questione D'Annunzio (così si chiama lo scalo bresciano) si può spiegare così: per 14 anni anni il  Catullo - e quindi noi veronesi, che del Catullo siamo azionisti attraverso Comune, Provincia e Camera di Commercio - ha buttato una marea di soldi (si parla di decine e decine di milioni di euro) in qualcosa che nemmeno era, tecnicamente suo. Immaginiamo di prendere una casa in affitto, ristrutturarla per bene, e poi un bel giorno venire sfrattati: quello che noi pensavamo fosse un investimento, si rivelerebbe la più atroce delle beffe. Ora, la concessione è sostanzialmente un prolungamento - di 40 anni - del contratto di affitto della casa da cui, appena tre mesi fa, eravamo stati sfrattati.
La prima conseguenza di questo è chiara a tutti: visto che la casa, adesso, è mia, se non ci abito posso almeno subaffittarla a qualcuno e rientrare in possesso di un po' di quei soldi che ci ho speso. E' questo che il management dell'aeroporto intende quando parla di un piano di rilancio "finalizzato all'ingresso di partner industriali".
Per il resto, la strategia per Montichiari è ormai delineata: dovrà diventare un aeroporto specializzato nelle merci facendo concorrenza non tanto a Malpensa (dove oggi atterranno la maggior parte dei cargo) ma agli scali del Nord Europa (Francoforte, Monaco ecc): già perché la maggior parte delle cose che importiamo atterra in Germania e viene trasportata in Italia via camion. Non ho né gli elementi né le competenze per dire se questo piano riuscirà: di certo, perché abbia almeno qualche possibilità, la concessione era fondamentale. Mica posso convincere i cinesi ad atterrare sulla mia pista se non ho  nemmeno la certezza che l'hanno prossimo sarà ancora la mia pista.
Infine, i riflessi su Verona. Il Catullo non va troppo bene: troppi costi (che in questo ultimo anno si è cercato di tagliare pesantemente, dopo il maxibuco di 26 milioni nel 2011) e un futuro incerto. I voli charter, su cui un tempo Verona era specializzata, sembrano ormai un retaggio del Novecento. Sui low-cost, dopo il clamoroso divorzio da Ryanair, si raccoglieranno le briciole. Rimangono i voli di linea, dove restano alcune rotte ben presidiate, ma in generale poca roba. Ecco che l'aeroporto di Brescia, con quei suoi margini di crescita tutt'ora ignoti e inesplorati, può in prospettiva rappresentare tantissimo per Verona: magari, in un futuro non troppo distante, contribuire a tenere aperto uno scalo (importantissimo per l'indotto della città) che, per ragioni puramente industriali, potrebbe perfino essere chiuso. La vera domanda, insomma, non è tanto: chi se ne frega di Montichiari? Piuttosto: riuscirà il tenente colonnello D'Annunzio a salvare il soldato Catullo? 

lunedì 18 marzo 2013

La (cinica) follia del lusso ai tempi della crisi

Sono stato, sabato pomeriggio, a visitare l'Excelsior, il nuovo grande magazzino del "lusso" che ha aperto da qualche giorno a Verona in fondo a via Mazzini, al posto della vecchia Upim. Sul mio giornale, in settimana, avevo letto l'intervista dell'amministratore delegato del gruppo Coin Stefano Beraldo che, nello spiegare i nove milioni di euro investiti nella struttura,  esordiva così: "Investire oggi in Italia può sembrare una follia, ma se qualcuno ci domanda se siamo folli, questa è la nostra risposta".  Credo che non ci sia nessuna folle follia nell'Excelsior Verona (a parte le borse del marchio omonimo, al suo interno) e, per spiegare il perché, la prenderò un po' da lontano. Ma non troppo: alla fine è una cosa che ci riguarda più o meno tutti.
L'Excelsior, che già è a Milano, riprende in piccolo il concetto dei magazzini Harrod's di Londra o dei Lafayette di Parigi, ma si limita a vendere vestiti e profumi di marca (presto si potrà anche mangiare nella "food hall"): l'offerta sembra quella del duty free di un  grande aeroporto internazionale. D'altra parte, il concetto stesso di lusso è cambiato, da quando il lusso è diventato "di massa": ha poco a che fare con il pregio dei tessuti, la qualità delle finiture, ha molto a che fare con il design, il brand. Insomma, si rischia di spendere 300 euro per comprare un maglione non molto migliore di quello che si trova al mercato, benché in un ambiente certo diverso, luminoso, accogliente (per me soffocante), dove si viene "coccolati" da uno stuolo di giovani commessi.
 Ma poi non è questo in fondo il punto: alla fine ognuno è libero di spendere i propri soldi come vuole, no? La vera domanda in realtà è un'altra: chi, di questi tempi, ha dei soldi da spendere? E qui torniamo alla "follia" di cui sopra e del perché, secondo me, non c'è nulla di folle. Il mondo in cui viviamo è tremendamente diseguale: i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre la schiera dei poveri si ingrossa con chi, fino a ieri, se la cavava dignitosamente. Eppure, la maggior parte di noi ha una visione ancora troppo edulcorata della realtà: in sostanza, non ha la percezione di quanto davvero siano ricchi i ricchi, di quanta quota della ricchezza detengano rispetto a tutti gli altri. Vedere per credere questo video sulla distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti (dove le cose accadono sempre un po' prima che da noi): la maggioranza degli americani vorrebbe un sistema più equo, ma la sua percezione delle diseguaglianze non ha nulla a che fare con la realtà, che è molto, molto peggiore di quanto s'immagini. Questo è il mondo che sta plasmando questa lunga crisi: se in passato vigeva la regola dell'80/20 (l'80% della ricchezza mondiale è detenuto dal 20% della popolazione), lo schema sta diventando sempre più quello del 99/1 (il 99% detenuto dall'1%).
Ora, se io fossi un imprenditore del lusso, mi preoccuperei - con una punta di cinismo - di non disperdere  i consumi di questa piccola quota di straricchi. Come fare? Per esempio, concentrando in un solo luogo open-space una serie di boutique dai marchi noti e riconoscibili, in un ambiente "sfarzoso" ma accogliente. Come dite? Una follia? 

martedì 12 marzo 2013

Traforo vs Filobus

Il Passante Nord, e con esso il traforo delle Torricelle, ha fatto un notevole passo avanti con la firma della concessione dei lavori, la settimana scorsa. Ma attenzione: l'iter è tutt'altro che concluso. Servono i certificati antimafia, la Valutazione d'impatto ambientale dal ministero (e i neoparlamentari Pd e grllini promettono che la bloccheranno: vedremo), soprattutto serve una montagna di soldi che le banche dovranno prestare a chi si accollerà l'investimento (un totale di circa un miliardo di euro, compresa la manutenzione) con la speranza di vederselo ripagare dai pedaggi. Sullo sfondo, i problemi della Mantovani, l'impresa di costruzioni che promette di entrare nella nuova società di progetto con un ruolo da protagonista. Ma protagonista, delle cronache, è stato in queste settimane Pierangelo Baita, il presidente, arrestato per una storia di fatture false con l'accusa di evasione fiscale e truffa (e c'è chi ipotizza un giro di mazzette).
Di fronte a temi come quello del traforo, si rischia sempre di dividersi in fazioni: guelfi contro ghibellini, sostenitori delle grandi opere a prescindere "perché portano posti di lavoro e sviluppo" e all'opposto campioni dell'effetto "Nimby" - not in my backyard. Alla fine rischia di sfuggire il nodo di fondo, l'idea di città che si avvalla con il traforo (e che, occorre dirlo, la maggioranza dei veronesi ha legittimato con il voto): una città dove il trasporto automobilistico resta la forma principale di mobilità, dove si preferisce pagare un pedaggio per utilizzare una galleria che un biglietto dell'autobus per muoversi, a costi sociali molto più ridotti.
C'è da capirli i veronesi: il trasporto pubblico qui è assolutamente inadeguato. Ma guardiamoci intorno. A Padova, ormai da 5-6 anni, si muovono con un tram su rotaia che taglia la città da nord a sud con frequenza ogni sette minuti. A Brescia hanno appena inaugurato una avveniristica metropolitana con guida automatica: una sommessa ambiziosa (e costosa) per una città così piccola, che ha deciso di investire nel trasporto  pubblico quello che a Verona si spenderà per il traforo (circa 900 milioni di euro). A Verona,  si è puntato su un filobus "low-cost" che promette pochi disagi di cantieri e grande flessibilità. C'è da sperare che tecnici e assessori abbiano studiato bene la lezione di Bologna, che con un filobus (a guida assistita) ha preso un enorme cantonata ed ora è costretta a tenere i mezzi a marcire nei depositi.
Al netto di tutto questo, però, mi frulla nel cervello una domanda: se il filobus manterrà le promesse e rivoluzionerà davvero la mobilità di Verona, togliendo quindi migliaia di auto dalle strade, che bisogno ci sarebbe del traforo?
P.s. In questa intervista a L'Arena, il boss di Technital Massimo Raccosta risponde anche a questa domanda, sostenendo che solo quando il traforo libererà la città dalle auto, il filobus potrà funzionare davvero. Sommessamente, mi tengo tutti i miei dubbi. 

venerdì 1 marzo 2013

Visto da Verona: non può che essere Pd-Grillo

Dopo un iniziale momento di smarrimento, mi sto lentamente convincendo che i risultati delle elezioni non sono così male come sembrano. Certo, all'apparenza sembra un tutti contro tutti foriero di un'instabilità di cui l'Italia non ha certo bisogno. Eppure, ci sono alcuni elementi finora sottovalutati che,  a mio parere, una volta insediato il Parlamento, diventeranno importanti, forse decisivi.
Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno diverse affinità e non vedo perché non possano provare a fare un governo. Grillo dice che Bersani è uno "stalker politico", che il Pd sta mettendo in piedi un "mercato delle vacche", che non voteranno mai nessuna fiducia. Vedremo se si tratta di semplici schermaglie, o meno.
Per adesso, mi soffermerei su altri elementi. Primo: sia i parlamentari del Pd che quelli del M5S devono la loro elezione alle primarie. Possiamo criticare all'infinito i metodi di selezione degli uni e degli altri, la cosa indiscutibile è che gli uni e gli altri sono in Parlamento perché le rispettive "basi" hanno dato loro fiducia. E le due "basi", mi pare, sono tutt'altro che ostili all'idea di un governo comune, che non ha certo l'ambizione di durare cinque anni, ma che può realizzare alcune riforme importanti (costi della politica, legge elettorale) su cui le posizioni sono simili.
Per quanto se ne sia data un'imagine caricaturale - e gli eccessi verbali di Grillo non fanno che amplificare questo effetto - i grillini sono tutt'altro che marziani. Parlo per quelli che conosco, quelli di Verona. Gente istruita, magari inesperta, non certo dei barricaderi con il coltello tra i denti, ma persone apparentemente di buon senso, che guardano alle buone pratiche dell'Europa del nord. In parlamento ci sono loro, Grillo no. E quelli del Pd? I veronesi li conosco bene, so che difficilmente voterebbero la fiducia a un governo con Berlusconi: i loro elettori (quelli che li hanno votati alle primarie e fatti eleggere) li spellerebbero vivi. In ultimo, le primarie hanno - se non eliminato - certamente attenuato le logiche di corrente che hanno devastato il Pd negli ultimi anni: c'è da sperare che più gente decida, adesso, con la propria testa, e non sotto ricatto dei capibastone.
C'è poi anche una questione generazionale: le primarie del Pd hanno in buona parte svecchiato gli eletti, e pure i grillini sono in buona parte under 40. Gente che conosce bene la realtà (spesso drammatica) dei giovani, della precarietà, per averla vissuta anche sulla propria pelle. Lo stesso non si può dire né del Pdl  (i cui volti nuovi si contano sulle dita di una mano), né dei "montiani" (una pattuglia che pare fin troppo aristocratica).
Sono davvero curioso di vedere cosa succederà in Parlamento. Mai questa volta, con leader profondamente delegittimati (Bersani ha condotto una campagna elettorale suicida e ha incassato un risultato disastroso) o al contrario eccessivi fino a derive messianiche (ma ricordiamoci che uno dei comandamenti del M5S è che ognuno "vale uno", Grillo compreso), deputati e senatori saranno responsablizzati come non mai. Dopo anni di schiaffi al Parlamento, a me sembra tutto sommato una buona notizia. Altro che tornare a votare: adesso che il Paese è diviso in tre blocchi, i due più "simili" devono necessariamente mettersi attorno a un tavolo e trovare un terreno comune. Gli eletti facciano quello per cui abbiamo mandati a Roma e per cui li paghiamo. Ci governino, possibilmente bene.