mercoledì 30 gennaio 2013

L’Arsenale e la paura del nuovo


Ho letto la petizione che gira in questi giorni “a favore del mantenimento dell’Arsenale asburgico di Verona in mano pubblica e della sua esclusiva destinazione ad attività di pubblica utilità”. L’ho letta, e non mi convince per nulla. Non mi convincono le premesse, quando si ventila che ogni “manomissione” dell’Arsenale “potrebbe compromettere lo status di patrimonio dell’umanità” di Verona come stabilito dall’Unesco. O come quando si afferma che “la cittadinanza si è riappropriata di questo spazio, rendendolo, dopo una lunga attesa, il luogo preferito per il tempo libero e la socializzazione del quartiere di Borgo Trento”. Sinceramente, non capisco cosa ci sia da manomettere in un complesso che cade letteralmente a pezzi; ogni volta che ci passo, poi,  provo un senso  di tristezza per tutto quello spazio vuoto, buio (di sera), non sfruttato, se non per qualche film proiettato d’estate o qualche piccola iniziativa come il mercatino del vintage. Ma soprattutto, della petizione (che è appoggiata anche dal Partito democratico) non mi convincono le conclusioni: ovvero,  che questo enorme spazio a due passi dal centro debba restare esclusivamente in mano pubblica e che vada quindi rigettata al mittente senza troppi complimenti la proposta di una cordata privata (Contec- Rizzani De Eccher) disposta a investirci una bella camionata di soldi con lo scopo di valorizzare il tutto  in senso commerciale.
Da tempo a Palazzo Barbieri si arrovellano su cosa fare dell’Arsenale. Ai tempi dell’amministrazione Zanotto era stato commissionato un progetto allo studio Chipperfield, con l’idea di trasferirci il museo di storia naturale. Costo stimato? 60 milioni di euro: un libro dei sogni per le finanze pubbliche, anche allora che le cose giravano un po’ meglio, figurarsi oggi. E poi, era sostenibile un museo di quelle dimensioni, con i conseguenti costi di gestione?  Sta di fatto che non se ne fece nulla. Si arriva così all’amministrazione Tosi che, dopo l’ennesimo risiko di permute con la solita fondazione Cariverona (che ha in progetto diversi musei: auguri), si ritrova 12 milioni di euro da investire nell’Arsenale. Fa così un bando e arriva la proposta in questione. Sul piatto i privati mettono 36  milioni circa, che si aggiungono ai 12 del Comune. Il progetto prevede, nella corte est, un asilo nido, spazi per le associazioni, un centro anziani e la sede della circoscrizione; nella corte ovest una sorta di polo “didattico-creativo”, con una scuola della moda, l’Accademia Cignaroli (la cui sede oggi cade a pezzi) oltre ad uffici (probabilmente la nuova sede dell’ordine degli architetti). La palazzina di comando resta a destinazione museale e potrebbe diventare un prolungamento del museo di Castelvecchio. Nella parte centrale, le attività commerciali: nessun supermercato o negozio di cianfrusaglie, ma “insediamenti di qualità” (l’esempio ricorrente è Eatitaly), il tutto con una piazza “coperta” in modo da far vivere il sito tutto l’anno.
C’è chi grida alla “svendita” per  la concessione di  99 anni richiesta dai privati come condizione per investire. Di fatto, due terzi dell’Arsenale verrebbero così ceduti. Penso che sia un nodo fondamentale su cui è giusto discutere e che il Comune, in sede di trattativa, debba fare di tutto per limare al ribasso il più possibile. Ma il punto a me sembra un altro: solo con l’intervento di privati l’Arsenale può tornare a vivere. Certo, nessuno vuole vedere un luogo come l’Arsenale trasformarsi in una sorta di “Grande Mela”, ma non mi pare che il progetto preveda questo, anzi. E dubito che sia anche nell’interesse di chi investe simili somme ( 36 milioni non sono noccioline) tanto più  che  a Verona, di centri commerciali ce ne sono fin troppi: quel che manca, semmai, sono proprio le attività “di qualità” che fioriscono altrove (penso a Milano o a Bologna, per non parlare di una qualsiasi città del nord Europa) dove il nuovo non spaventa, ma incuriosisce.
P.s. Che i 12 milioni di euro del Comune possano bastare per ristrutturare il complesso – come sostengono i comitati -  a me pare una pia illusione.  Ma, anche fossero sufficienti, cosa ce ne faremmo poi dell’Arsenale tutto “pubblico” e senza più il becco di un quattrino?  

lunedì 7 gennaio 2013

Il modello Verona è morto

Per otto mesi Roberto Maroni ha indicato nel "modello Verona" la strategia per raggiungere l'obiettivo della sua nuova Lega: ovvero diventare il partito egemone del Nord, come la cdu è per la baviera in Germania, per poi contrattare nuovi livelli di autonomia con Roma. Modello Verona sta a significare la formula con cui Flavio Tosi ha rivinto l'anno scorso le elezioni: Lega più liste "civiche" pensate per svuotare i consensi del maggiore concorrente dei voti padani, il Pdl.  Alla fine, invece, il neo segretario federale si è rimangiato tutto: dopo aver detto mai più con Berlusconi, ha siglato l'accordo elettorale niente meno che col Cavaliere, fregandosene dell'opinione dei militanti. Niente di nuovo, questo, in casa Lega: Umberto Bossi era noto per le sue giravolte. Alla fine degli anni Novanta aveva tacciato di eresia i segretari veneto e piemontese, rispettivamente Comencini e Comino, proprio per le loro aperture elettorali al "Roma-Polo", salvo poi - una volta cacciati gli eretici - andare a nozze proprio con quello che lui stesso, fino a qualche tempo prima, aveva chiamato  nei comizi il "mafioso di Arcore". Ma Bossi a quel tempo aveva un carisma che sarebbe riuscito a far ingoiare ai suoi qualsiasi cosa. Maroni no: tanto che, a sentire gli umori della base, il partito rischia la distruzione più oggi che per i diamanti di Belsito.
Maroni fa tutto questo per la Lombardia: diventarne presidente, e fare poi squadra con Piemonte e Veneto in un'unica grande macro regione del Nord, è evidentemente un obiettivo che giustifica qualsiasi patto, pure quello col diavolo (berlusconiano). Certo è che, se è pur vero che la politica è il regno del realismo, raramente si era assistito ad una decisione di un simile, smaccato cinismo. Che il popolo leghista lo segua è tutto da vedere e non so quanto sincere siano le parole di Tosi e Zaia che si complimentano con il Capo per l'accordo siglato. La verità è che a Maroni è mancato il coraggio di fare in Lombardia quanto fatto da Tosi a Verona: scommettere sulla propria persona e sulla propria leadership, prima che sulle alleanze. Il "modello Verona",  come prodotto da esportazione,  è così morto ancor prima di nascere. Quanto alla Lega, anche lei non sta molto bene. 

mercoledì 2 gennaio 2013

Primarie Pd, a Verona è una rivoluzione

Oggi la pattuglia del Pd veronese a Roma è quanto mai numerosa: ben cinque parlamentari, un numero sproporzionato rispetto alle percentuali raccolte in riva all'Adige, tra le peggiori d'Italia. Di questi, solo uno sarà riconfermato: si tratta di Gianni Dal Moro, che negli ultimi anni ha coltivato un rapporto personale con Enrico Letta (di cui è ora il vice) e sarà candidato nella quota riservata del segretario Bersani.
Degli altri quattro, solo la senatrice Maria Pia Garavaglia ha avuto il coraggio di partecipare alle primarie del 30 dicembre: è stata una debacle. Giampaolo Fogliardi, già segretario della Margherita veronese, da vecchio democristiano qual è ha fiutato il vento e, una volta capito che si sarebbe schiantato, ha lasciato il partito per traslocare nella nascente "lista Monti". Federico Testa tornerà a fare il professore universitario: nei suoi anni a Roma  il territorio di cui è espressione è stato il suo ultimo pensiero, di certo non poteva chiedere a quel territorio i voti per essere rieletto. Di Federica Mogherini, romanissima ma candidata da Veltroni a Verona in virtù di un marito veronese, si sono perse le tracce.
A Roma ci andrà adesso Diego Zardini, giovane consigliere provinciale (e della seconda circoscrizione). Ci sperano anche il segretario provinciale Vincenzo D'Arienzo e la giornalista Alessia Rotta, che ha tentato di ribaltare il tavolo e ci è quasi riuscita, sbaragliando comunque i candidati "renziani" ufficiali troppo simili a una costola della ex Margherita per interpretare davvero il cambiamento. Non rimane che attendere sabato, quando la direzione regionale del partito dovrà procedere alla compilazione delle liste elettorali. Con tutta probabilità, non saranno più di due (tre al massimo) i parlamentari veronesi democratici nella prossima legislatura, ma avranno una legittimità popolare molto superiore ai cinque peones di oggi. Oltre che all'impegno romano, ne avranno uno altrettanto gravoso a Verona: dovranno contribuire a costruire un'alternativa credibile di governo della loro città, dove oggi il Pd è ridotto a percentuali di pura testimonianza.