lunedì 30 dicembre 2013

Verona è morta, viva Verona

Dopo mesi di inattività, in cui a Verona è successo di tutto ma dove non trovavo nulla di davvero interessante da aggiungere,  rieccoci qua. Tempo di bilanci, in questa fase di passaggio dell'anno, ma lo sprone a tornare a scrivere su questo blog me l'ha data un articolo (invettiva? sfogo?) sul fatto quotidiano, dal titolo senza appello: "Verona agli occhi di uneuropeo: solo rassegnazione e inerzia culturale". Riassunto, poi, sui social network con l'epitaffio: "Verona è morta". L'ho letto e, a una prima scorsa, l'ho trovato piuttosto banale e superficiale, condito per altro di diverse palesi esagerazioni, come questa:
Guai a sbocconcellare un panino sui gradini della Gran Guardia o bere una birra ridendo per la strada dopo la mezzanotte, i vigili urbani arrivano subito
Poi, però, ho visto che in tanti commentavano, condividevano. Ho riflettuto, concludendo che evidentemente l'articolo ha toccato le corde di tanti. E, a quel punto, ho pensato che in effetti questo articolo lo avrei potuto scrivere anch'io. Non oggi, ma quindici anni fa. 
Verona è morta quindi? Per certi versi, per me, lo è sempre stata.
 Finite le superiori, Verona mi stava stretta. Una gabbia, dove mi sentivo costretto, che non mi faceva respirare. Ascoltavo musica che qui non si trovava, leggevo libri di cui qui non si discuteva, volevo conoscere e frequentare persone che qui non esistono, o se esistono sono ghettizzate. Per non parlare dei locali: mi sembrava che l'unica forma di divertimento codificata fosse l'aperitivo e la discoteca, due riti (in particolare il secondo) che non ho mai celebrato. Così, come tanti, me ne sono andato. Tornandoci, a malincuore, dieci anni dopo, pensando all'ennesima parentesi provvisoria di una vita, la mia, che mi immaginavo pienamente realizzata altrove: Londra, New York, oppure - abbassando le ambizioni - Milano o Roma. Ma in Italia, diceva tempo fa Flaiano, non c'è nulla di più definitivo del provvisorio, e così è stato per me. Eccomi ancora qua, ormai radicato, veronese come non lo sono mai stato prima, quasi senza accorgermene. 
L'errore più grande, per chi torna a Verona, è cercarvi le cose che sai non esserci, perché sono quelle che ti avevano spinto ad andartene. E' un errore che ho cercato di non commettere (non sempre riuscendoci). E nel frattempo, ho imparato ad apprezzare cose che un tempo, per snobismo, non vedevo. L'ho fatto grazie in particolare a chi, a Verona, è venuto a viverci da altre città. Chi me l'ha fatta scoprire accogliente quando a me pareva fredda e chiusa. Chi mi ha fatto apprezzare il carattere semplice dei veronesi, che ne fa - proprio per questo - persone meno provinciali di quanto si dica. E le osterie, che qui sopravvivono come forma di socialità interclassista. E il tifo, che è religione e goliardia assieme. E tante altre piccole cose, che insieme non fanno New York, Londra o Bruxelles. Ma che fanno una città dove vivere è un compromesso accettabile tra le proprie ambizioni (le mie, almeno) e la voglia, dopo tanto girovagare, di mettere radici. Anche perché, com'è noto, è oggettivamente una bellissima città. 
Ma questa bellezza sta diventando il ricco decoro di un funerale che, anno dopo anno, si sta consumando: Verona rischia di spegnersi, lentamente ma inesorabilmente
Verona è peggiorata negli ultimi anni? SI sta spegnendo? Non saprei. Certo, questa è una città che aveva cullato l'illusione di essere un'isola felice nel grande mare in tempesta della crisi italiana, un'illusione che ha cullato anche l'amministrazione comunale (che per altro pare godere di grandi consensi), almeno a vedere i grandi progetti in cui si è imbarcata. Da qualche tempo, non è più così. La malattia è arrivata anche qui, e porta rabbia, rassegnazione, depressione. Chi ha un lavoro ha paura di perderlo, chi non ce l'ha sa che non può trovarlo. Se i vecchi locali chiudono (ma altri, nel frattempo, aprono) è anche e soprattutto per questo. 
Un europeo a Verona rimane incantato dalla sua bellezza ma sbalordito dall’inerzia culturale in cui sta scivolando
Detto che io mi sento a tutti gli effetti europeo pur essendo veronese, la cultura - propriamente detta - è qualcosa per cui questa città non ha mai brillato. Per una mostra di Monet in Gran Guardia, c'è una cronica carenza di iniziative di largo respiro, su cui sarebbe necessario puntare non solo per stimolare un turismo di qualità, ma anche per creare nuovi spazi di aggregazione per chi a Verona ci vive, che non siano i soliti triti e ritriti bar di piazza Erbe. Più che la presunta repressione della joie de vivre da parte di Tosi (è il passaggio per me più enigmatico dell'articolo), mancano idee e mancano spazi. E quello che a me sbalordisce, semmai, è la povertà del dibattito pubblico in città, e di questo al sindaco (i cui meriti e le cui colpe non voglio in questa sede affrontare) si può imputare solo di averne approfittato per puntellare il suo potere. 
Un europeo a Verona vorrebbe aprire la finestra della città sull’Europa per farvi entrare un po’ di quella modernità, entusiasmo e dinamismo che stanno caratterizzando altre città europee al fianco delle quali Verona merita di stare.
La domanda, in definitiva, è una e una sola: Verona merita di più? Facile rispondere di sì, troppo facile. Io credo che Verona meriti quello che ha, e forse ha di più di quello che merita. Ha un passato meno cosmopolita di quanto ritiene il giornalista del Fatto, essendosi trovata nella spiacevole posizione di confine dell'impero (austriaco) prima di diventare snodo di corridoi europei che oggi non ci sono e forse mai ci saranno. Penso che abbia un grande potenziale inespresso, ma che per colmarlo non bastiamo noi veronesi: serve sempre più gente che viene da fuori, che resti a vivere qua dopo l'Università, che ci venga per lavorare, che crei una domanda di servizi che oggi, semplicemente, non c'è. Il futuro, per me, non è conservazione, ma contaminazione. Non è un sindaco illuminato (se mai ci sarà), ma una città che chiede, anzi pretende, cose che oggi non sono nell'agenda. 

 Io comunque,  tutto sommato, qui sono contento di viverci, pur cosciente dei tanti limiti che questa prospettiva offre . A differenza di quanto diceva Shakespeare in Romeo e Giulietta, c'è tutto un mondo fuori dalle mura di Verona. E meno male. 

lunedì 17 giugno 2013

Verona e la moda dei soldi (pubblici) allo sport

Nonmi è mai piaciuta la sponsorizzazione dell'Agsm all'Hellas Verona (un unicum nel panorama nazionale, come avevo spiegato qui) al di là che si sia rivelata o meno un affare per l'azienda (loro dicono di sì). Ma questa può essere quanto meno passata come operazione commerciale, poiché se è vero che l'Agsm è tutta del Comune di Verona, che ne requisisce ogni anno gli utili, è vero anche che si tratta di una spa che deve stare su un mercato competitivo come quello dell'energia e del gas. E le aziende devono farsi pubblicità.
Il problema è che l'operazione Agsm-Hellas ha creato un precedente. E ora la mano pubblica si sente obbligata a intervenire per aiutare qualsiasi società sportiva in difficoltà. L'ultimo caso è quello della Marmi Lanza: non aveva i soldi per iscriversi al campionato di A1 di volley, glieli hanno dato Comune e due aziende parapubbliche come Agsm e Serit. Questi soldi vanno a pagare, tra le altre cose, gli stipendi arretrati dei giocatori.
Tutto questo avviene mentre ci sono piccole associazioni di cosiddetti "sport minori" che si vedono presentare il conto dal Comune: ad una, che conosco direttamente, l'affitto per il campo è stato più che triplicato da un giorno all'altro.
Non sono qua a dire che ci sia una relazione diretta tra l'una e l'altra cosa. Dico solo che le società sportive professionistiche, nella mia personale scala di priorità, stanno in fondo alla lista. Le piccole associazioni sportive dilettantistiche, fatte di volontari, stanno in cima.
Ma forse sono io che sbaglio. 

mercoledì 12 giugno 2013

Il festival del centenario, un'occasione perduta

Non è ancora cominciato, e questo post può essere ingeneroso - lo riconosco - ma il festival lirico del Centenario mi pare già inquadrabile come la classica occasione perduta.
Quando ero giovane, ovvero nel secolo scorso, ho lavorato in Arena, per cinque anni a strappare biglietti. Potevo vedermi gratis l'opera ogni sera e, ciò nonostante, non mi sono mai appassionato al genere. So di essere parte di una larghissima maggioranza che del "bel canto" non gliene frega nulla.
Ecco, è proprio per gente come me che un festival come quello di quest'anno avrebbe dovuto  rivolgersi.
Certo, non mi puoi proporre il solito menù riveduto e corretto spacciandomelo per grande evento. Non ho visto il Galà della Lirica (l'ha visto Aldo Grasso: non gli è piaciuto) ma - da quel che ho letto - non mi è sembrato molto diverso da quello degli anni scorsi: Antonella Clerici, qualche nome aria famosa cantata da qualche cantante famoso...
Al di là di questo, al di là delle nuove produzioni (sarà una grande Aida, pare), al di là dei grandi nomi, la verità è che a Verona tutto va avanti come se nulla fosse. Sarà colpa dei veronesi, poco sensibili, ma se Maometto non va alla montagna, dovrebbe essere il contrario.
Non sarebbero serviti più soldi, solo più idee.
I giovani cantanti in erba di tutto il mondo sarebbero potuti venire a Verona a cantare nelle piazze (in cambio il Comune poteva mettere a disposizione un'area per campeggiare, che mica si possono permettere una camera a 300 euro a notte). Si poteva organizzare una sorta di "fuori-salone" promuovendo la contaminazione della lirica con altre forme musicali (rock, jazz). Si poteva organizzare una notte bianca a tema, magari in occasione della prima all'Arena. Si poteva organizzare una rassegna di cinema all'aperto proiettando qualche vecchia rappresentazione all'Arena.
Si poteva fare molto di più, al di là delle mostre che pochi andranno a vedere, degli "eventi" che pochi frequenteranno. Si doveva coinvolgere la città e attirare i giovani, creando un atmosfera internazionale.
Va beh, pazienza. Sarà per il prossimo centenario. 

martedì 11 giugno 2013

S'io fossi Flavio

Voglio dirlo chiaramente: abbiamo perso e me ne assumo tutta la responsabilità. In altri casi, in passato, non ho esitato ad attribuire le colpe a chi le aveva, anche quando si trattava di personalità della mia parte politica, quando non del mio partito, ma ho sempre pensato che occorra dire le cose come stanno, anche quando non conviene.
Oggi che al comando ci sono anche io, non voglio rifugiarmi in frasi di circostanza, non cercherò alibi. La colpa, benché non solo mia, è anche mia. Come attenuante, va riconosciuto che la Lega negli ultimi tempi non sta passando un bel periodo. Ma gli scandali, i diamanti di Belsito, i soldi in Tanzania, sono ormai cosa di un anno fa e non spiegano la disfatta di queste elezioni. D'altra parte, non si capirebbe come un partito devastato come il Pd, dopo i casi Penati, Mps (per tacere di quanto hanno combinato in Parlamento) abbia vinto dappertutto.
Se abbiamo perso, le vere ragioni sono altre, e bisogna avere il coraggio di ammetterle, se vogliamo rinascere.
Non abbiamo saputo allevare una classe dirigente nuova e credibile, e se ci siamo visti costretti a ricandidare Gentilini,  al quale pure ci lega affetto e riconoscenza, vuol dire che dietro di lui c'è davvero il vuoto.
Dobbiamo tornare ad ascoltare la nostra gente, i nostri militanti, ma anche - più in generale - i cittadini.
Da mesi parliamo di cose incomprensibili, come la Macroregione. Io stesso ho dedicato molte delle mie energie - troppe - nello sviluppo della mia lista , che al momento è percepita come un contenitore senza idee, che per giunta fa ombra alla Lega, una specie di autobus dove si sale coi propri voti, per regolare conti aperti con altri.  Non è così che dev'essere, su questo, io, ci ho messo la faccia.
L'intera strategia delle liste civiche è da rivedere. Anche perché a queste elezioni le hanno fatte meglio gli altri, vedi Bussolengo e Sona: più vere, più autentiche, io invece sono passato come il colonizzatore che arriva da fuori e non mi nascondo dietro un dieci o quindici per cento preso per dire che comunque è andata bene. Non è così.
Abbiamo il dovere di dire chiaramente ai nostri militanti cosa diventerà la Lega e, a posteriori, bisogna ammettere che tute quelle espulsioni sono state un errore. Ho dato l'impressione di essere della stessa pasta di quelli che ho combattuto, per anni, dall'interno.
Devo la mia fortuna politica alla mia capacità di ascoltare la gente, di capirne gli umori e interpretarli. Devo ammettere che, da qualche mese a questa parte, qualcosa si è spezzato.
C'è ora chi mi chiede le dimissioni ed è una richiesta che comprendo, dopo quanto successo in queste elezioni. Le mie dimissioni sono lì, sul tavolo, anche se intorno a me non vedo grossi geni della politica. Se me lo chiederanno, tornerò ad occuparmi al cento per cento della mia città, che ultimamente ho un po' trascurato e si vede, anche perché molte persone a cui ho delegato non si sono rivelate all'altezza. Ma anche questo, in fondo, è una cosa di cui mi devo assumere piena e totale responsabilità. 

martedì 28 maggio 2013

La Lega non ha perso per i diamanti

Spazzata via a Vicenza, aggrappata all'immortalità di Gentilini a Treviso, reduce da scoppole mai viste in provincia di Verona (come a Villafranca, dove ha preso il 3 per cento): la Lega Nord, il giorno dopo il verdetto delle urne delle elezioni comunali, si riscopre moribonda.
Cosa ha portato quella maggioranza (relativa) degli elettori veneti che solo pochi anni avevano affidato le proprie speranze di cambiamento al Carroccio a punire in modo così duro i candidati di quella che, un tempo, veniva chiamata "la Potentissima"?  I leghisti (quei pochi rimasti, almeno) dicono - in buona sostanza -   di aver perso per colpa dello yacht di Bossi jr e dei diamanti di Belsito. Insomma, per tutta quella sequela di scandali che ha portato, ormai più di un anno fa, alle dimissioni di Bossi da segretario e all'investitura, tra un tripudio di scope, di Maroni. La stessa spiegazione fornita, due mesi fa, per giustificare il flop alle politiche.
Sinceramente, ho i miei dubbi.
La Lega ha perso perché si è avviluppata su un tatticismo attendista tipico di chi non ha orizzonte: un tatticismo che l'ha portata a governare le tre Regioni del Nord nel momento di massimo scollamento dai suoi militanti. Militanti che non capiscono che roba sia la Macroregione, se il Pdl sia un alleato o un avversario, se la lista Tosi debba prendere i voti fuori dalla Lega o punti a svuotare sempre di più la stessa Lega fino a farla scomparire. Militanti che quando danno voce a questi dubbi, in modo più o meno colorito, rischiano di venire espulsi.
La Lega ha perso perché non ha (più) un progetto chiaro, perché continua a ripetere le sue parole d'ordine - contro gli immigrati, per esempio-  non rendendosi conto che gli italiani  in questo momento hanno altri problemi a cui pensare rispetto al fatto se la clandestinità sia o meno da considerarsi reato. Tanto più che gli immigrati scappano dall'Italia come e più degli italiani. Per non parlare poi di  autonomia e federalismo, concetti nobili che la stessa Lega ha contribuito a svuotare di senso negli inconcludenti anni al governo.
La Lega ha perso (e perderà) perché ha fallito la sfida del cambiamento generazionale. Dietro i Tosi, i Zaia, i Salvini (che per altro sono sulla scena da parecchio tempo) non ci sono volti nuovi su cui scommettere.  Ha cacciato Bossi per ritrovarsi con Maroni, fedele compagno del senatùr per 30 anni. Nei due comuni veneti più importanti, Treviso e Vicenza, ha candidato due icone ammaccate della vecchia guardia, come Giancarlo Gentilini e Manuela Dal Lago, la stessa che ha commentato:  "Perché ci dovrebbero votare?". Già, perché?


lunedì 22 aprile 2013

Pd e Lega: il dilemma dei ribelli

Sparare sul Partito democratico, di questi tempi, è peggio che sparare sulla Croce Rossa, quindi evito. Piuttosto, mi concentro su una nota a margine del dibattito che ha per titolo "Il Pd ha sbagliato tutto, ha consegnato il suo elettorato a Grillo e il Paese a Berlusconi": quella che riguarda l'influenza di facebook e twitter sul comportamento dei "giovani" parlamentari Pd che hanno affossato Marini. 
Molti parlamentari Pd (a Verona tre su quattro: D'Arienzo, Rotta e Zardini) sono stati eletti grazie alle primarie: hanno preso, nel caso veronese, dai 2.500 ai 3.500 voti, che gli hanno consentito di staccare il biglietto per Roma. Ora, questi voti sono non sono "amici" su  facebook o follower su twitter: sono persone vere, in carne ed ossa, che usano i social network per comunicare con la persona cui hanno dato fiducia. Credo che i parlamentari, questi votanti, li conoscano quasi uno per uno. Dire che non dovevano ascoltarli e fare come chiedeva loro il segretario (ora dimissionario) del loro partito era una battaglia persa in partenza. 
Il loro dilemma è simile, seppur in proporzioni diverse, a quello che vivono i militanti dell'unico altro "vero" partito rimasto in Italia (tralascio i partiti "personali" o para-aziendali), ovvero la Lega Nord. C'è un caso, a Verona, che sta scoppiando. A Villafranca, dove si vota tra poco più di un mese, il "capo" Tosi ha chiesto ai leghisti locali di appoggiare il candidato scelto dalla "Lista Tosi", il primario siciliano Pecoraro (il "Marini" della situazione). Ma loro non ci stanno: i loro elettori non glielo perdonerebbero  e quindi di schiereranno con il sindaco uscente del Pdl, Faccioli (il loro "Rodotà"...), condannandosi così all'espulsione dal loro partito. D'altra parte, gli atti di ribellione non sono mai senza conseguenze
E qui torno ai "nostri" parlamentari del Pd, ed in particolare a chi, come Alessia Rotta e Vincenzo D'Arienzo, ha contribuito ad affossare Marini per dire no alle large intese con Berlusconi, e ora si troverà a votare un "governissimo" appoggiato dallo stesso Berlusconi: un boccone, per chi li ha votati, ancor più indigeribile di quello di Marini.  Se voteranno la fiducia, tradiranno i loro elettori; se non la voteranno, abiureranno al loro partito. So che hanno stipendio invidiabile e privilegi, ma io davvero - in questo momento - non li invidio. 

venerdì 12 aprile 2013

In morte di un (bravo) ambientalista

E' morto Sandro Campagnola, curatore di un bel sito che racconta(va) il lato oscuro della Valpolicella e da cui ho tratto spesso ispirazione per scrivere i miei articoli. L'ho incontrato di persona una sola volta, esattamente due anni fa. Mi aveva dato appuntamento al quartiere Navigatori, dove aveva un ufficio. Abbiamo mangiato assieme un panino e parlato per un paio d'ore di quella terra alla quale eravamo entrambi visceralmente legati e che soffrivamo nel vedere, ogni giorno, violentata e sfregiata da chi non ne aveva compreso il valore e la bellezza. Ho ritrovato il resoconto di quella chiacchierata qualche giorno fa, riordinando i miei appunti. Quasi un segno del destino. La pubblico qui, senza cambiare nulla, come un piccolo e personale omaggio a una persona vera, che ha combattuto fino alla fine in quello che credeva. E sarebbe bello se ora qualcuno, in sua memoria, compilasse questa tabellina che lui aveva lasciato vuota.


12 aprile 2011
 Sandro Campagnola abita a Valgatara, è il curatore del sito teladoiolavalpolicella.
Un cancro lo sta divorando da anni: è partito da un rene, poi è andato in metastasi prendendogli i polmoni. E’ inoperabile: il farmaco che gli hanno prescritto serve solo a guadagnare tempo.
Magari è stata sfortuna. Magari era scritto che andasse a finire così. Ma nulla può togliergli dalla testa il pensiero che una piccola, invisibile particella di metallo pesante si sia infiltrata un giorno nel suo organismo. Gli anticorpi, addestrati ad allertarsi contro virus e batteri, l’hanno lasciata perdere, credendola innocua. Ma lei si è depositata, e i tessuti intorno si sono infiammati, creando il brodo di coltura ideale per il proliferare delle cellule tumorali.
Da dove è venuta quella particella? Sandro abita nel cuore della Valpolicella, a Valgatara, circondato da pregiati vigneti nutriti  però di velenosi pesticidi e da un cementificio che  si è incuneato decenni fa nei dintorni di Fumane.
Fermare i progetti di ampliamento di Cementirossi e creare le condizioni perché l’azienda levi le tende sono diventate le ragioni della sua vita. Dal suo sito, non esattamente un blog, dà notizie, esprime opinioni, lancia provocazioni. Come quella studiata per smascherare il ricatto occupazionale dell’azienda: “ma quanti sono i dipendenti Cementirossi? Sono 100, oppure 50, 40, 30…”. Per questo riceve svariate mail d’insulti da dipendenti, il più delle volte anonimi.
Sandro è cosciente che se la sua battaglia dovesse avere infine successo, molta gente perderebbe il lavoro. Ma per lui questa è una responsabilità dell’azienda, che non ha studiato nessun piano alternativo al nuovo forno (per Sandro, come per gli altri ambientalisti della zona, un inceneritore mascherato) per altro bocciato dal Tar. “Non abbiamo mai detto che l’azienda deve chiudere domani – spiega – ma dovrebbe fare un piano per arrivare alla chiusura programmata in un arco di alcuni anni”. Sa di cosa parla: il suo lavoro, che ora svolge in forma saltuaria, è quello di consulente aziendale, specializzato in crisi aziendali. Un po’ come il George Clooney di Tra Le Nuvole, dev’essere stato bravo. “Non ho mai subito intimidazioni, mai una gomma tagliata della macchina”.
Ora che si batte contro il cementificio è diverso. Non solo per lui. Franco Scamperle, viticoltore proprietario della cantina “Le Salette” e tra i firmatari del ricorso al Tar contro il cementificio, si è trovato dodici vigne tagliate.
Gli oppositori, tra gli imprenditori, del cementificio sono una piccola coalizione formata da Franco Allegrini, Giorgio Sboarina (fratello di Re Lele) de La Costa degli Ulivi, e Ugolini di Ugolini Petroli, che ha dietro una cinquantina di piccoli imprenditori della zona. I due comitati che svolgono il lavoro sporco sono Valpolicella2000 e Fumane Futura.
Politicamente, mi dice che il sindaco di Fumane ha un atteggiamento pilatesco. Nella Lega, che pare sia l’unico partito che conta ormai, ci sarebbero spaccature, ma Tosi avrebbe promesso pressioni sulla soprintendenza per non consentire gli scavi nella collina di Marezzane. 

A posteriori, non so dire se  quelle valutazioni di Sandro fossero corrette. Registro che, effettivamente, la soprintendenza ha bloccato gli scavi a Marezzane e il Tar ha confermato la decisione. Ma, quella contro il cementificio, era solo una delle tante battaglie di Sandro, che aveva una sola, vera, linea editoriale: non possiamo abdicare al bello, che è la nostra unica ricchezza. Una lezione che purtroppo, in questo Paese di grandi tesori coperti di ancora maggiori brutture, in pochi hanno assimilato.

martedì 9 aprile 2013

Piccolo breviario degli insulti di Bossi a Tosi


«A Pontida c'erano dei fascisti che picchiavano anche le donne. Avevano i guanti neri e secondo me venivano da Verona...» . Come un fiume carsico, è riemerso il livore di Umberto Bossicontro Flavio Tosi. Un grande classico, che caratterizza la storia della Lega da almeno dieci anni. La sparata contro i fascisti di Pontida (anche se, in realtà, Tosi è stato fischiato da una nutrita truppa di lealisti del Senatur) ne ricorda altre, del passato recente ma anche (politicamente) remoto.
Un piccolo breviario degli insulti di Bossi a Tosi merita di essere compilato.
  1. “Tosi è morto”. Correva l'anno 2003, a Verona si teneva un corteo contro il procuratore capo Guido Papalia, “reo” di aver indagato Tosi e altri leghisti per una campagna contro il campo nomadi. C'era anche Bossi e molti giurano di avergli sentito dire quella frase, mentre si approcciava al palco. Molti la interpretavano come l'irritazione del Grande Capo per l'eccessivo “protagonismo” del Flavio nostrano. La Lega di Verona (Tosi ne era segretario) venne poi commissariata (l'accusa di Bossi: Tosi "mise tutta la sua famiglia dentro la sede della Lega di Verona") ma quella sentenza non fu mai applicata, forse anche per la successiva malattia del Senatur.
  2. “Il presidente della Regione Veneto? Vedo bene Tosi”. Bossi lo dice a metà 2009, quando manca ancora un anno alle regionali. Ma Bossi non ha mai avuto intenzione di candidare Tosi a quella carica, tanto che poi scelse Zaia. A posteriori, fu un tentativo di cucinare Tosi, tornato sulla cresta dell'onda dopo l'elezione a sindaco di Verona, a fuoco lento, molto lento. Forse troppo lento.
  3. “Tosi ha riempito la Lega di fascisti”. Eccola qua, la grande ossessione del Senatur. Secondo molti, nasce quanto alcuni elementi del “cerchio magico” gli fanno notare che nella lista civica del sindaco (per molti leghisti, il “partito di Tosi”, concorrente alla stessa Lega) vengono dal mondo dell'estrema destra. Siamo nell'autunno del 2011, Bossi viene messo per la prima volta in discussione nel partito e la fronda interna si manifesta apertamente durante il drammatico congresso nella “sua” Varese. Di li a poco, il Senatur non si tiene più.
  4. “Tosi è uno stronzo”. Sembra la sentenza di morte (politica) finale per Tosi, la sua espulsione dal Carroccio viene data per certa, e comunque i leghisti giurano che lo sarà se Tosi proseguirà nella sua idea di presentarsi alle amministrative del 2012 con la sua lista civica, il suo “partito”. Ma in pochi giorni il mondo cambia: scoppia lo scandalo dei diamanti in Tanzania, Bossi è costretto a dimettersi, Maroni brandisce le scope e Tosi rivince le elezioni con la sua lista (e promette di farne un nuovo movimento, insomma un “partito").
    p.s. Divertente la tempistica dell'ultima intemerata di Bossi, che consiglia anche Berlusconi di votare la fiducia a Bersani, proprio mentre Tosi dibatte aVinitaly con Matteo Renzi.    

mercoledì 27 marzo 2013

Sir Paul in un'Arena profanata

Caro Paul. No, aspetta: gentile signor McCartney. Uhm, facciamo: egregio baronetto.
Va beh, ci siamo capiti.
Qui a Verona siamo tutti very excited dopo aver saputo che verrai a suonare all'Arena, il prossimo 25 giugno. I prezzi dei biglietti, te lo devo dire, sono un po' eccessivi, ma per te faremo uno sforzo. D'altra parte, la tua stessa presenza è un evento: ho avuto la fortuna di vederti l'anno scorso a Londra, quando sei salito a sorpresa sul palco con Bruce Springsteen. Cantavate Twist&Shout, la tua voce non è più quella di un tempo, ma chi se ne frega: noi tutti in visibilio, a ballare nel fango di Hyde Park, fino a che vi hanno tolto la corrente, come nel '69 al concerto sul tetto della Apple. Mitico!
Ma ora, caro sir Paul, veniamo al punto. Sono certo che, se hai scelto Verona come unica data italiana - per giunta nell'anno del cinquantesimo anniversario della formazione dei Beatles - lo hai fatto per l'Arena. Un contesto suggestivo, magico, e via aggettivando. Magari ci farai pure un Dvd e andrà a ruba. Ti voglio però avvertire: temo che il tuo concerto non sarà l'evento dell'anno.
Come dici? No, non sei insediato dal programma per il centenario della prima Aida in Arena, per altro a duecento anni dalla nascita di Giuseppe Verdi ( fossi io nella fondazione lirica, avrei chiesto a tutti gli artisti che si esibiranno in Arena quest'anno un omaggio alla ricorrenza: non sarebbe male vederti cantare Va' Pensiero, potresti riesumare qualche vecchio arrangiamento di Phil Spector). Ho paura che la città si accorgerà appena di questo importante anniversario e sarebbe un peccato perché niente come la vecchia opera si adatta a far vivere, davvero, questo teatro di quasi duemila anni d'età (e tutto l'indotto di alberghi e ristoranti).
Caro Paul, non voglio essere troppo snob, ma mi piange un po' il cuore a pensare che l'Arena, in quest'anno così importante e ricco di ricorrenze, sarà ricordata soprattutto per questi ragazzini qua.


Che pena. Ma il vero tuffo al cuore sarà vedere l'ondata di giovanissime fan che si strapperanno i capelli, che si accamperanno in piazza Bra, che ricorreranno a ogni sotterfugio pur di avere il biglietto che non sono riuscite a comprare (l'unica consolazione è che non hanno ancora l'età per votare). Si sta scatenando una specie di follia collettiva, amplificata dai social network, e spero che almeno quel giorno (il 19 maggio) il tempo sia molto, molto inclemente.

La Beatlesmania era un'altra cosa: c'erano i Beatles. Per voi si, era lecito fare qualunque cosa. Eravate il simbolo di un'epoca nuova, di una generazione che ribolliva e reclamava il suo posto al sole. Suonavate una musica mai sentita prima, eravate allo stesso tempo pop e avanguardia. Questi qui sono diversi: sono un prodotto commerciale, costruito a tavolino, pompato da milioni di dollari di pubblicità più o meno diretta. Non dovrebbero salire sullo stesso palco che calcherai anche tu, è ingiusto, è sbagliato. I luoghi hanno un cuore e un'anima, a maggior ragione quelli che ospitano la musica: questi qui non li farebbero mai suonare al Madison Square Garden (come dici Paul? Hanno suonato anche li??? Cristo santo).
Che ti devo dire, caro Paul, io spero che la tua presenza potrà redimere questa ennesima profanazione dell'Arena. Ma la verità è che ho perso ormai la speranza. Per i classici 30 denari ci troviamo (costretti?) a dover nobilitare, con il nostro retaggio di storia millenaria, l'ultima trovata disperata di un'industria discografica senza ormai nulla più da dire, se non riesumare l'ennesima boy-band di minorenni efebici.
Non posso non ricordare che mentre loro cantano quant'è bello essere gggiovani, tu a 15 anni avevi già scritto "When I'm 64": una canzone che parla di futuro.
Quel futuro che noi, oppressi dal passato e schiacciati dal presente, non sappiamo più nemmeno immaginare.



lunedì 25 marzo 2013

Dove va Tosi (e perché Zaia va dall'altra parte)

Ha detto bene Pietrangelo Buttafuoco, venuto sabato a Verona per "sponsorizzare" la discesa in campo di Flavio Tosi come futuro leader del centrodestra: "L'Italia è come fosse nel dopoguerra. Che è peggio della guerra". Siamo circondati di macerie: non visibili, come nel '45, ma non per questo meno reali. Dopo cinque anni di crisi, l'Italia è stremata. Isole felici non ne esistono più, nemmeno al Nord, nemmeno in Veneto: le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta. Chi ha ancora un lavoro si chiede quanto durerà: siamo diventati tutti precari. L'orizzonte si è accorciato: si pensa a sopravvivere oggi, più che a progettare il domani.  E' il dopoguerra, baby. Nel frattempo l'Italia è spaccata in tre blocchi, apparentemente inconciliabili tra loro: a Roma è lo stallo più completo, mentre il mondo va veloce e ci condanna ad essere periferia della periferia.
Questo lo sanno tutti, ma solo in pochi stanno pensando al nuovo ordine che emergerà da queste macerie. Tosi è uno di questi: che ci prenda o meno lo vedremo, di certo lui guarda a un futuro che adesso ancora non c'è. Un futuro in cui Renzi prenderà la guida del centrosinistra (o di quel che ne resta) e il centrodestra si troverà a dovergli contrapporre una figura adeguata, autorevole, possibilmente della stessa generazione: Tosi sta lavorando per essere quella persona. Un percorso in salita, quello del sindaco di Verona, per tante ragioni (ne avevo elencate alcune qui), ma tutt'altro che una scommessa al buio. Il progetto della "nuova Lega" sul modello Csu bavarese serve proprio a questo: a fornire a Tosi quella base partitica di consenso che, da solo con la Lega, non avrà mai. E la macroregione, anzi le macroregioni, sono la nuova risposta "dal basso" al federalismo che il Carroccio, nonostante le promesse, non è mai riuscito a conquistare a Roma.
In questo disegno, che postula una sostanziale dissoluzione del Pdl una volta "pensionato" Berlusconi,  la Lega (che - ricordiamolo - è il partito di Tosi) è destinata ad avere un ruolo subordinato, come dimostrano per altro i rapporti di forza del "modello Verona", dove la lista trasversale di Tosi ha tre volte i voti del Carroccio.  I leghisti lo hanno capito benissimo: e se i "tosiani" si fidano dell'intuito del loro capo, tutti gli altri invece lo temono. Anche chi, come Luca Zaia, si era sempre tenuto distante dalle "beghe di partito", ha cambiato atteggiamento. Dopo le elezioni ha usato parole di inusitata violenza (per lui) per attaccare Tosi, accusandolo del pessimo risultato del Carroccio in Veneto. E oggi è tornato a sparare palle incatenate, contro la decisione di commissariare la Lega di Venezia. Non è in scena una seconda puntata della guerra tra  "bossiani" e "barbari sognanti": detto molto brutalmente, è il primo atto di chi crede ancora che la vecchia Lega abbia un futuro e di chi (Tosi e Maroni) pensa di no. Due visioni del mondo opposte e non conciliabili, di quel che sarà una volta sgomberate le macerie.

martedì 19 marzo 2013

Che ci frega dell'aeroporto di Brescia?

Non fossi un addetto ai lavori, penso che la mia reazione alla notizia della firma della concessione quarantennale per l'aeroporto bresciano di Montichiari al veronese Catullo sarebbe stata su per giù un'alzata di spalle. E allora? Cosa cambia nella mia vita? Insomma: chi se frega.
Avrei sbagliato. Un po' come chi dice: "Lo spread? Un'invenzione!". E poi però dimentica che l'Italia è Paese che (soprav)vive solo grazie al debito e che più lo spread è alto più è costoso farsi prestare i soldi che servono per pagare gli stipendi di medici e insegnanti, sostenere gli anziani in casa di riposo, tappare le buche delle strade.
Riassunta in poche parole la questione D'Annunzio (così si chiama lo scalo bresciano) si può spiegare così: per 14 anni anni il  Catullo - e quindi noi veronesi, che del Catullo siamo azionisti attraverso Comune, Provincia e Camera di Commercio - ha buttato una marea di soldi (si parla di decine e decine di milioni di euro) in qualcosa che nemmeno era, tecnicamente suo. Immaginiamo di prendere una casa in affitto, ristrutturarla per bene, e poi un bel giorno venire sfrattati: quello che noi pensavamo fosse un investimento, si rivelerebbe la più atroce delle beffe. Ora, la concessione è sostanzialmente un prolungamento - di 40 anni - del contratto di affitto della casa da cui, appena tre mesi fa, eravamo stati sfrattati.
La prima conseguenza di questo è chiara a tutti: visto che la casa, adesso, è mia, se non ci abito posso almeno subaffittarla a qualcuno e rientrare in possesso di un po' di quei soldi che ci ho speso. E' questo che il management dell'aeroporto intende quando parla di un piano di rilancio "finalizzato all'ingresso di partner industriali".
Per il resto, la strategia per Montichiari è ormai delineata: dovrà diventare un aeroporto specializzato nelle merci facendo concorrenza non tanto a Malpensa (dove oggi atterranno la maggior parte dei cargo) ma agli scali del Nord Europa (Francoforte, Monaco ecc): già perché la maggior parte delle cose che importiamo atterra in Germania e viene trasportata in Italia via camion. Non ho né gli elementi né le competenze per dire se questo piano riuscirà: di certo, perché abbia almeno qualche possibilità, la concessione era fondamentale. Mica posso convincere i cinesi ad atterrare sulla mia pista se non ho  nemmeno la certezza che l'hanno prossimo sarà ancora la mia pista.
Infine, i riflessi su Verona. Il Catullo non va troppo bene: troppi costi (che in questo ultimo anno si è cercato di tagliare pesantemente, dopo il maxibuco di 26 milioni nel 2011) e un futuro incerto. I voli charter, su cui un tempo Verona era specializzata, sembrano ormai un retaggio del Novecento. Sui low-cost, dopo il clamoroso divorzio da Ryanair, si raccoglieranno le briciole. Rimangono i voli di linea, dove restano alcune rotte ben presidiate, ma in generale poca roba. Ecco che l'aeroporto di Brescia, con quei suoi margini di crescita tutt'ora ignoti e inesplorati, può in prospettiva rappresentare tantissimo per Verona: magari, in un futuro non troppo distante, contribuire a tenere aperto uno scalo (importantissimo per l'indotto della città) che, per ragioni puramente industriali, potrebbe perfino essere chiuso. La vera domanda, insomma, non è tanto: chi se ne frega di Montichiari? Piuttosto: riuscirà il tenente colonnello D'Annunzio a salvare il soldato Catullo? 

lunedì 18 marzo 2013

La (cinica) follia del lusso ai tempi della crisi

Sono stato, sabato pomeriggio, a visitare l'Excelsior, il nuovo grande magazzino del "lusso" che ha aperto da qualche giorno a Verona in fondo a via Mazzini, al posto della vecchia Upim. Sul mio giornale, in settimana, avevo letto l'intervista dell'amministratore delegato del gruppo Coin Stefano Beraldo che, nello spiegare i nove milioni di euro investiti nella struttura,  esordiva così: "Investire oggi in Italia può sembrare una follia, ma se qualcuno ci domanda se siamo folli, questa è la nostra risposta".  Credo che non ci sia nessuna folle follia nell'Excelsior Verona (a parte le borse del marchio omonimo, al suo interno) e, per spiegare il perché, la prenderò un po' da lontano. Ma non troppo: alla fine è una cosa che ci riguarda più o meno tutti.
L'Excelsior, che già è a Milano, riprende in piccolo il concetto dei magazzini Harrod's di Londra o dei Lafayette di Parigi, ma si limita a vendere vestiti e profumi di marca (presto si potrà anche mangiare nella "food hall"): l'offerta sembra quella del duty free di un  grande aeroporto internazionale. D'altra parte, il concetto stesso di lusso è cambiato, da quando il lusso è diventato "di massa": ha poco a che fare con il pregio dei tessuti, la qualità delle finiture, ha molto a che fare con il design, il brand. Insomma, si rischia di spendere 300 euro per comprare un maglione non molto migliore di quello che si trova al mercato, benché in un ambiente certo diverso, luminoso, accogliente (per me soffocante), dove si viene "coccolati" da uno stuolo di giovani commessi.
 Ma poi non è questo in fondo il punto: alla fine ognuno è libero di spendere i propri soldi come vuole, no? La vera domanda in realtà è un'altra: chi, di questi tempi, ha dei soldi da spendere? E qui torniamo alla "follia" di cui sopra e del perché, secondo me, non c'è nulla di folle. Il mondo in cui viviamo è tremendamente diseguale: i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre la schiera dei poveri si ingrossa con chi, fino a ieri, se la cavava dignitosamente. Eppure, la maggior parte di noi ha una visione ancora troppo edulcorata della realtà: in sostanza, non ha la percezione di quanto davvero siano ricchi i ricchi, di quanta quota della ricchezza detengano rispetto a tutti gli altri. Vedere per credere questo video sulla distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti (dove le cose accadono sempre un po' prima che da noi): la maggioranza degli americani vorrebbe un sistema più equo, ma la sua percezione delle diseguaglianze non ha nulla a che fare con la realtà, che è molto, molto peggiore di quanto s'immagini. Questo è il mondo che sta plasmando questa lunga crisi: se in passato vigeva la regola dell'80/20 (l'80% della ricchezza mondiale è detenuto dal 20% della popolazione), lo schema sta diventando sempre più quello del 99/1 (il 99% detenuto dall'1%).
Ora, se io fossi un imprenditore del lusso, mi preoccuperei - con una punta di cinismo - di non disperdere  i consumi di questa piccola quota di straricchi. Come fare? Per esempio, concentrando in un solo luogo open-space una serie di boutique dai marchi noti e riconoscibili, in un ambiente "sfarzoso" ma accogliente. Come dite? Una follia? 

martedì 12 marzo 2013

Traforo vs Filobus

Il Passante Nord, e con esso il traforo delle Torricelle, ha fatto un notevole passo avanti con la firma della concessione dei lavori, la settimana scorsa. Ma attenzione: l'iter è tutt'altro che concluso. Servono i certificati antimafia, la Valutazione d'impatto ambientale dal ministero (e i neoparlamentari Pd e grllini promettono che la bloccheranno: vedremo), soprattutto serve una montagna di soldi che le banche dovranno prestare a chi si accollerà l'investimento (un totale di circa un miliardo di euro, compresa la manutenzione) con la speranza di vederselo ripagare dai pedaggi. Sullo sfondo, i problemi della Mantovani, l'impresa di costruzioni che promette di entrare nella nuova società di progetto con un ruolo da protagonista. Ma protagonista, delle cronache, è stato in queste settimane Pierangelo Baita, il presidente, arrestato per una storia di fatture false con l'accusa di evasione fiscale e truffa (e c'è chi ipotizza un giro di mazzette).
Di fronte a temi come quello del traforo, si rischia sempre di dividersi in fazioni: guelfi contro ghibellini, sostenitori delle grandi opere a prescindere "perché portano posti di lavoro e sviluppo" e all'opposto campioni dell'effetto "Nimby" - not in my backyard. Alla fine rischia di sfuggire il nodo di fondo, l'idea di città che si avvalla con il traforo (e che, occorre dirlo, la maggioranza dei veronesi ha legittimato con il voto): una città dove il trasporto automobilistico resta la forma principale di mobilità, dove si preferisce pagare un pedaggio per utilizzare una galleria che un biglietto dell'autobus per muoversi, a costi sociali molto più ridotti.
C'è da capirli i veronesi: il trasporto pubblico qui è assolutamente inadeguato. Ma guardiamoci intorno. A Padova, ormai da 5-6 anni, si muovono con un tram su rotaia che taglia la città da nord a sud con frequenza ogni sette minuti. A Brescia hanno appena inaugurato una avveniristica metropolitana con guida automatica: una sommessa ambiziosa (e costosa) per una città così piccola, che ha deciso di investire nel trasporto  pubblico quello che a Verona si spenderà per il traforo (circa 900 milioni di euro). A Verona,  si è puntato su un filobus "low-cost" che promette pochi disagi di cantieri e grande flessibilità. C'è da sperare che tecnici e assessori abbiano studiato bene la lezione di Bologna, che con un filobus (a guida assistita) ha preso un enorme cantonata ed ora è costretta a tenere i mezzi a marcire nei depositi.
Al netto di tutto questo, però, mi frulla nel cervello una domanda: se il filobus manterrà le promesse e rivoluzionerà davvero la mobilità di Verona, togliendo quindi migliaia di auto dalle strade, che bisogno ci sarebbe del traforo?
P.s. In questa intervista a L'Arena, il boss di Technital Massimo Raccosta risponde anche a questa domanda, sostenendo che solo quando il traforo libererà la città dalle auto, il filobus potrà funzionare davvero. Sommessamente, mi tengo tutti i miei dubbi. 

venerdì 1 marzo 2013

Visto da Verona: non può che essere Pd-Grillo

Dopo un iniziale momento di smarrimento, mi sto lentamente convincendo che i risultati delle elezioni non sono così male come sembrano. Certo, all'apparenza sembra un tutti contro tutti foriero di un'instabilità di cui l'Italia non ha certo bisogno. Eppure, ci sono alcuni elementi finora sottovalutati che,  a mio parere, una volta insediato il Parlamento, diventeranno importanti, forse decisivi.
Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno diverse affinità e non vedo perché non possano provare a fare un governo. Grillo dice che Bersani è uno "stalker politico", che il Pd sta mettendo in piedi un "mercato delle vacche", che non voteranno mai nessuna fiducia. Vedremo se si tratta di semplici schermaglie, o meno.
Per adesso, mi soffermerei su altri elementi. Primo: sia i parlamentari del Pd che quelli del M5S devono la loro elezione alle primarie. Possiamo criticare all'infinito i metodi di selezione degli uni e degli altri, la cosa indiscutibile è che gli uni e gli altri sono in Parlamento perché le rispettive "basi" hanno dato loro fiducia. E le due "basi", mi pare, sono tutt'altro che ostili all'idea di un governo comune, che non ha certo l'ambizione di durare cinque anni, ma che può realizzare alcune riforme importanti (costi della politica, legge elettorale) su cui le posizioni sono simili.
Per quanto se ne sia data un'imagine caricaturale - e gli eccessi verbali di Grillo non fanno che amplificare questo effetto - i grillini sono tutt'altro che marziani. Parlo per quelli che conosco, quelli di Verona. Gente istruita, magari inesperta, non certo dei barricaderi con il coltello tra i denti, ma persone apparentemente di buon senso, che guardano alle buone pratiche dell'Europa del nord. In parlamento ci sono loro, Grillo no. E quelli del Pd? I veronesi li conosco bene, so che difficilmente voterebbero la fiducia a un governo con Berlusconi: i loro elettori (quelli che li hanno votati alle primarie e fatti eleggere) li spellerebbero vivi. In ultimo, le primarie hanno - se non eliminato - certamente attenuato le logiche di corrente che hanno devastato il Pd negli ultimi anni: c'è da sperare che più gente decida, adesso, con la propria testa, e non sotto ricatto dei capibastone.
C'è poi anche una questione generazionale: le primarie del Pd hanno in buona parte svecchiato gli eletti, e pure i grillini sono in buona parte under 40. Gente che conosce bene la realtà (spesso drammatica) dei giovani, della precarietà, per averla vissuta anche sulla propria pelle. Lo stesso non si può dire né del Pdl  (i cui volti nuovi si contano sulle dita di una mano), né dei "montiani" (una pattuglia che pare fin troppo aristocratica).
Sono davvero curioso di vedere cosa succederà in Parlamento. Mai questa volta, con leader profondamente delegittimati (Bersani ha condotto una campagna elettorale suicida e ha incassato un risultato disastroso) o al contrario eccessivi fino a derive messianiche (ma ricordiamoci che uno dei comandamenti del M5S è che ognuno "vale uno", Grillo compreso), deputati e senatori saranno responsablizzati come non mai. Dopo anni di schiaffi al Parlamento, a me sembra tutto sommato una buona notizia. Altro che tornare a votare: adesso che il Paese è diviso in tre blocchi, i due più "simili" devono necessariamente mettersi attorno a un tavolo e trovare un terreno comune. Gli eletti facciano quello per cui abbiamo mandati a Roma e per cui li paghiamo. Ci governino, possibilmente bene.

giovedì 21 febbraio 2013

Il nuovo partito di Tosi

Ci sono alcuni elementi irrituali e paradossali nel lancio, mercoledì sera in fiera a Verona, del nuovo soggetto politico targato Flavio Tosi. Al di là dei modelli di riferimento (nuova democrazia cristiana o modello Csu bavarese che dir si voglia), a colpire è prima di tutto la tempistica (e su questo non ha tutti i torti Giancarlo Galan).
A poche ore dal voto delle politiche, dove la Lega Nord è alleata al Pdl di Berlusconi, si butta nell'agone un nuovo "partito" che, se dobbiamo rapportarci a quanto è successo a Verona, mira ad allearsi con il Carroccio da una posizione di forza (la lista Tosi ha preso tre volte i voti della Lega) e, soprattutto, a spolpare lo stesso Pdl (sempre a Verona, alle ultime elezioni, ha preso un misero 5 per cento). Se a questo si aggiunge che, per dare forza a questo progetto, l'invito è quello di votare Lega domenica e lunedì (e quindi, per proprietà transitiva, a portare acqua a Berlusconi), c'è da farsi venire il mal di testa. Quanto al mal di pancia, in questo momento, è tutto dei leghisti: Maroni gli aveva promesso un partito "egemone" del Nord, mentre ora si trovano costretti in un matrimonio d'interesse con il Cavaliere e, da martedì, ad abbracciare un'idea neo-democristiana di partito dove, prevedibilmente, saranno minoranza. 
L'idea che il "modello Verona" possa funzionare anche su base regionale e nazionale è, innanzitutto, un'ipoteca sulle elezioni del 2015 e chissà cosa ne pensa Luca Zaia che col Pdl dice di governare benissimo. E' poi davvero difficile non vedere la nuova "cosa" leghista senza pensare ad un Tosi candidato governatore (anche se i tosiani lo sognano addirittura candidato premier, in una sfida con Matteo Renzi). 
Di certo, l'assunto di fondo di questa nuova scommessa politica di Tosi è che Berlusconi sia politicamente morto, il che è tutto da vedere. E' invece nella base leghista si sente grande disaffezione e si teme un risultato modesto (che diventerebbe disastroso se Maroni perdesse in Lombardia).  A partire da martedì, ne vedremo delle belle. 

mercoledì 30 gennaio 2013

L’Arsenale e la paura del nuovo


Ho letto la petizione che gira in questi giorni “a favore del mantenimento dell’Arsenale asburgico di Verona in mano pubblica e della sua esclusiva destinazione ad attività di pubblica utilità”. L’ho letta, e non mi convince per nulla. Non mi convincono le premesse, quando si ventila che ogni “manomissione” dell’Arsenale “potrebbe compromettere lo status di patrimonio dell’umanità” di Verona come stabilito dall’Unesco. O come quando si afferma che “la cittadinanza si è riappropriata di questo spazio, rendendolo, dopo una lunga attesa, il luogo preferito per il tempo libero e la socializzazione del quartiere di Borgo Trento”. Sinceramente, non capisco cosa ci sia da manomettere in un complesso che cade letteralmente a pezzi; ogni volta che ci passo, poi,  provo un senso  di tristezza per tutto quello spazio vuoto, buio (di sera), non sfruttato, se non per qualche film proiettato d’estate o qualche piccola iniziativa come il mercatino del vintage. Ma soprattutto, della petizione (che è appoggiata anche dal Partito democratico) non mi convincono le conclusioni: ovvero,  che questo enorme spazio a due passi dal centro debba restare esclusivamente in mano pubblica e che vada quindi rigettata al mittente senza troppi complimenti la proposta di una cordata privata (Contec- Rizzani De Eccher) disposta a investirci una bella camionata di soldi con lo scopo di valorizzare il tutto  in senso commerciale.
Da tempo a Palazzo Barbieri si arrovellano su cosa fare dell’Arsenale. Ai tempi dell’amministrazione Zanotto era stato commissionato un progetto allo studio Chipperfield, con l’idea di trasferirci il museo di storia naturale. Costo stimato? 60 milioni di euro: un libro dei sogni per le finanze pubbliche, anche allora che le cose giravano un po’ meglio, figurarsi oggi. E poi, era sostenibile un museo di quelle dimensioni, con i conseguenti costi di gestione?  Sta di fatto che non se ne fece nulla. Si arriva così all’amministrazione Tosi che, dopo l’ennesimo risiko di permute con la solita fondazione Cariverona (che ha in progetto diversi musei: auguri), si ritrova 12 milioni di euro da investire nell’Arsenale. Fa così un bando e arriva la proposta in questione. Sul piatto i privati mettono 36  milioni circa, che si aggiungono ai 12 del Comune. Il progetto prevede, nella corte est, un asilo nido, spazi per le associazioni, un centro anziani e la sede della circoscrizione; nella corte ovest una sorta di polo “didattico-creativo”, con una scuola della moda, l’Accademia Cignaroli (la cui sede oggi cade a pezzi) oltre ad uffici (probabilmente la nuova sede dell’ordine degli architetti). La palazzina di comando resta a destinazione museale e potrebbe diventare un prolungamento del museo di Castelvecchio. Nella parte centrale, le attività commerciali: nessun supermercato o negozio di cianfrusaglie, ma “insediamenti di qualità” (l’esempio ricorrente è Eatitaly), il tutto con una piazza “coperta” in modo da far vivere il sito tutto l’anno.
C’è chi grida alla “svendita” per  la concessione di  99 anni richiesta dai privati come condizione per investire. Di fatto, due terzi dell’Arsenale verrebbero così ceduti. Penso che sia un nodo fondamentale su cui è giusto discutere e che il Comune, in sede di trattativa, debba fare di tutto per limare al ribasso il più possibile. Ma il punto a me sembra un altro: solo con l’intervento di privati l’Arsenale può tornare a vivere. Certo, nessuno vuole vedere un luogo come l’Arsenale trasformarsi in una sorta di “Grande Mela”, ma non mi pare che il progetto preveda questo, anzi. E dubito che sia anche nell’interesse di chi investe simili somme ( 36 milioni non sono noccioline) tanto più  che  a Verona, di centri commerciali ce ne sono fin troppi: quel che manca, semmai, sono proprio le attività “di qualità” che fioriscono altrove (penso a Milano o a Bologna, per non parlare di una qualsiasi città del nord Europa) dove il nuovo non spaventa, ma incuriosisce.
P.s. Che i 12 milioni di euro del Comune possano bastare per ristrutturare il complesso – come sostengono i comitati -  a me pare una pia illusione.  Ma, anche fossero sufficienti, cosa ce ne faremmo poi dell’Arsenale tutto “pubblico” e senza più il becco di un quattrino?  

lunedì 7 gennaio 2013

Il modello Verona è morto

Per otto mesi Roberto Maroni ha indicato nel "modello Verona" la strategia per raggiungere l'obiettivo della sua nuova Lega: ovvero diventare il partito egemone del Nord, come la cdu è per la baviera in Germania, per poi contrattare nuovi livelli di autonomia con Roma. Modello Verona sta a significare la formula con cui Flavio Tosi ha rivinto l'anno scorso le elezioni: Lega più liste "civiche" pensate per svuotare i consensi del maggiore concorrente dei voti padani, il Pdl.  Alla fine, invece, il neo segretario federale si è rimangiato tutto: dopo aver detto mai più con Berlusconi, ha siglato l'accordo elettorale niente meno che col Cavaliere, fregandosene dell'opinione dei militanti. Niente di nuovo, questo, in casa Lega: Umberto Bossi era noto per le sue giravolte. Alla fine degli anni Novanta aveva tacciato di eresia i segretari veneto e piemontese, rispettivamente Comencini e Comino, proprio per le loro aperture elettorali al "Roma-Polo", salvo poi - una volta cacciati gli eretici - andare a nozze proprio con quello che lui stesso, fino a qualche tempo prima, aveva chiamato  nei comizi il "mafioso di Arcore". Ma Bossi a quel tempo aveva un carisma che sarebbe riuscito a far ingoiare ai suoi qualsiasi cosa. Maroni no: tanto che, a sentire gli umori della base, il partito rischia la distruzione più oggi che per i diamanti di Belsito.
Maroni fa tutto questo per la Lombardia: diventarne presidente, e fare poi squadra con Piemonte e Veneto in un'unica grande macro regione del Nord, è evidentemente un obiettivo che giustifica qualsiasi patto, pure quello col diavolo (berlusconiano). Certo è che, se è pur vero che la politica è il regno del realismo, raramente si era assistito ad una decisione di un simile, smaccato cinismo. Che il popolo leghista lo segua è tutto da vedere e non so quanto sincere siano le parole di Tosi e Zaia che si complimentano con il Capo per l'accordo siglato. La verità è che a Maroni è mancato il coraggio di fare in Lombardia quanto fatto da Tosi a Verona: scommettere sulla propria persona e sulla propria leadership, prima che sulle alleanze. Il "modello Verona",  come prodotto da esportazione,  è così morto ancor prima di nascere. Quanto alla Lega, anche lei non sta molto bene. 

mercoledì 2 gennaio 2013

Primarie Pd, a Verona è una rivoluzione

Oggi la pattuglia del Pd veronese a Roma è quanto mai numerosa: ben cinque parlamentari, un numero sproporzionato rispetto alle percentuali raccolte in riva all'Adige, tra le peggiori d'Italia. Di questi, solo uno sarà riconfermato: si tratta di Gianni Dal Moro, che negli ultimi anni ha coltivato un rapporto personale con Enrico Letta (di cui è ora il vice) e sarà candidato nella quota riservata del segretario Bersani.
Degli altri quattro, solo la senatrice Maria Pia Garavaglia ha avuto il coraggio di partecipare alle primarie del 30 dicembre: è stata una debacle. Giampaolo Fogliardi, già segretario della Margherita veronese, da vecchio democristiano qual è ha fiutato il vento e, una volta capito che si sarebbe schiantato, ha lasciato il partito per traslocare nella nascente "lista Monti". Federico Testa tornerà a fare il professore universitario: nei suoi anni a Roma  il territorio di cui è espressione è stato il suo ultimo pensiero, di certo non poteva chiedere a quel territorio i voti per essere rieletto. Di Federica Mogherini, romanissima ma candidata da Veltroni a Verona in virtù di un marito veronese, si sono perse le tracce.
A Roma ci andrà adesso Diego Zardini, giovane consigliere provinciale (e della seconda circoscrizione). Ci sperano anche il segretario provinciale Vincenzo D'Arienzo e la giornalista Alessia Rotta, che ha tentato di ribaltare il tavolo e ci è quasi riuscita, sbaragliando comunque i candidati "renziani" ufficiali troppo simili a una costola della ex Margherita per interpretare davvero il cambiamento. Non rimane che attendere sabato, quando la direzione regionale del partito dovrà procedere alla compilazione delle liste elettorali. Con tutta probabilità, non saranno più di due (tre al massimo) i parlamentari veronesi democratici nella prossima legislatura, ma avranno una legittimità popolare molto superiore ai cinque peones di oggi. Oltre che all'impegno romano, ne avranno uno altrettanto gravoso a Verona: dovranno contribuire a costruire un'alternativa credibile di governo della loro città, dove oggi il Pd è ridotto a percentuali di pura testimonianza.